05.06.2023 Icon

Responsabilità dell’ente e modello colposo

La responsabilità dell’ente risponde a criteri differenti da quelli utilizzati per accertare il reato presupposto, non essendone una mera estensione. È quanto riafferma la Suprema Corte, aderendo, in maniera innovativa, ad una visione puramente colposa della “responsabilità 231”.

Il caso concreto originava da una vicenda di contraffazione di un famosissimo marchio di moda, da parte di legale rappresentante di due società: una ditta individuale (incaricata di stampare i prodotti recanti il marchio contraffatto) e una s.r.l. (con il compito di commercializzare gli stessi prodotti). L’intervento della magistratura interrompeva l’attività
delittuosa e la s.r.l., unitamente alla persona fisica, esponente apicale, veniva rinviata a giudizio.
Dopo l’assoluzione in primo grado, la Corte di Appello riteneva sussistente sia la responsabilità della persona fisica sia, per quanto più d’interesse in questa sede, condannava la s.r.l. ad una sanzione amministrativa pari a 200 quote da 300 euro ciascuna, applicando altresì sei mesi di sanzione interdittiva ex artt. 5, 25-bis e 9, c. 1, n. 2 d.lgs. n. 231/2001.
Al di là dei motivi di impugnazione della persona fisica, per lo più focalizzati sull’insussistenza della contraffazione, l’ente proponeva un autonomo ricorso, focalizzato sull’insufficiente valutazione da parte dei Giudici di Appello del “necessario presupposto per giungere all’affermazione della responsabilità amministrativa dell’ente: il reato deve essere stato commesso nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica”. Ebbene, a parere della società ricorrente la sentenza d’appello non aveva fornito alcun elemento in merito, limitandosi ad una “tautologica asserzione” di coincidenza tra l’interesse personale dell’esponente apicale (e della sua ditta individuale) e “l’interesse o vantaggio” dell’ente stesso.
La sentenza in commento mira in primo luogo a ricostruire, rigorosamente, la responsabilità dell’ente come autonoma, ancorché connesso, rispetto al fatto-reato della persona fisica. Se, infatti, l’illecito dell’ente è legato alla “realizzazione di un reato da parte di un autore individuale nell’interesse o a vantaggio dell’ente”, ciò nondimeno la responsabilità della persona giuridica non può, in maniera semplicistica, essere “appiattita” su quella del suo esponente. Tale responsabilità, infatti, risulta caratterizzata da una sua propria dimensione giuridica, poiché riflette le eventuali carenze dell’ente. Ma se tali carenze, all’esito del giudizio, non sono accertate, l’ente non può essere ritenuto responsabile per la sola realizzazione del reato presupposto da parte di un esponente apicale.
La separazione delle responsabilità è, infatti, l’unico metodo coerente con la ratio legis del d.lgs. n. 231/2001, come ricordato dalla Suprema Corte: “l’addebito di responsabilità dell’ente non si fonda su un’estensione, più o meno automatica, della responsabilità individuale al soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente, a fronte dell’obbligo di autonormazione volta alla prevenzione del rischio di
realizzazione di un reato presupposto”. Al riguardo, la sentenza in commento fa proprio quanto affermato, da ultimo, la celeberrima Cass. pen., sez. VI, n. 23401/2021, “Impregilo”, che ne costituisce in maniera esplicita il precedente logico e argomentativo.
Il tratto innovativo, dunque, risiede nell’adesione della Suprema Corte a “quella che, in dottrina, è stata individuata come una nuova frontiera ermeneutica in relazione all’illecito degli enti, e cioè la tesi che ricostruisce la struttura […] secondo un modello di tipo colposo”.
La trasposizione pratica di tale principio comporta il dovere in capo al giudice di merito di “passare attraverso la verifica della sussistenza di specifici nessi […] che intercorrono tra la carenza organizzativa e il fatto-reato, sicché il reato presupposto deve essere messo in collegamento con la carenza di auto-organizzazione preventiva”.
Tale verifica, lungi dall’essere teorica, deve avvenire in concreto, accertando se: i) l’ente abbia adottato un modello idoneo; ii) se il reato dell’esponente abbia realizzato la concretizzazione del rischio che la “regola cautelare organizzativa violata mirava ad evitare”; iii) il rispetto del modello avrebbe evitato l’evento. L’adozione di un modello organizzativo efficace si configura, in altri termini, come comportamento concretamente lecito dell’ente al fine di elidere la propria responsabilità, indipendentemente da quella della persona fisica per il reato presupposto.
A parere della Corte, un simile scrutinio era stato completamente omesso nei gradi di merito, nei quali si era giunti solo “ad abbinare l’interesse della società all’interesse proprio della persona fisica”: valutazione quest’ultima sicuramente insufficiente, anche alla luce della mancata considerazione del rapporto tra “fatturato complessivo dell’ente” e “introiti derivanti dalla commercializzazione dei prodotti in sequestro”, che può costituire un “indicatore” per la responsabilità 231.
In conclusione, la pronuncia della Suprema Corte appare rigorosa nel ricondurre il modello di responsabilità dell’ente a solide basi normative – evitando corrispondenze tout court tra la persona fisica e la persona giuridica – non rinunciando tuttavia ad aprire uno scenario sul futuro del “modello 231” e della compliance delle Società. La lettura delle vicende dell’ente secondo il filtro della colpa – e, di conseguenza, dell’adozione di regole organizzative efficaci come comportamento alternativo lecito – è una scelta fortemente garantista nei confronti degli enti, nonché un ulteriore incentivo all’adozione di modelli realmente adeguati, efficaci e coerenti con la realtà aziendale di riferimento. I prossimi sviluppi di tale filone giurisprudenziale rappresentano un profilo di sicuro interesse per le prospettive della responsabilità amministrativa da reato.

Autore Stefano Gerunda

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Autore Roberto Saglimbeni

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