Non sono rari i casi in cui un datore di lavoro tenti di assumere aspiranti lavoratori “a basso costo”, a pena di non procedere con l’assunzione degli stessi, o imponga al lavoratore già assunto, a pena del licenziamento, condizioni peggiorative rispetto a quelle previste dal contratto di lavoro già stipulato.
Soprattutto casi riguardanti lavoratori già assunti, ma minacciati di licenziamento laddove non “retrocedano” parte della loro retribuzione al datore di lavoro (e dunque costretti a subire un trattamento economico peggiore di quello convenuto nel contratto di assunzione), sono stati già oggetto della cronaca giudiziaria o di inchiesta.
Condotta del datore di lavoro che certamente si pone in contrasto con le norme giuslavoristiche che disciplinano i rapporti tra datori e dipendenti nonché con le disposizioni costituzionali in tema di tutela del lavoro e del lavoratore.
Tale comportamento è astrattamente idoneo ad integrare anche plurime fattispecie di reato, tra cui il delitto di “caporalato” (punito dall’art. 603 bis c.p.) e il reato di estorsione (art. 629 c.p.).
Proprio in relazione al delitto di estorsione, si registra una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. VI, sent. 16 febbraio 2024, n. 7128) con cui gli ermellini hanno fatto chiarezza in merito alla configurazione del reato.
Nel caso deciso dalla Suprema Corte, gli ermellini hanno annullato la decisione dei Giudici di Appello di Palermo con cui avevano condannato un imprenditore per il delitto di estorsione continuata ai danni dei dipendenti della propria impresa.
L’estorsione, secondo i Giudici di merito, sarebbe consistita nella prospettazione da parte del datore di lavoro ai dipendenti di non procedere con l’assunzione degli stessi laddove non avessero accettato le condizioni retributive imposte dall’imprenditore (prima della stipula del contratto di lavoro).
Orbene, secondo la Cassazione, tale condotta non integrerebbe il reato di estorsione. Infatti, “la prospettazione da parte del datore di lavoro agli aspiranti dipendenti, al momento dell’assunzione e quindi prima che si sia instaurato un rapporto di lavoro, dell’alternativa tra la rinunzia, anche parziale, alla retribuzione formalmente concordata o ad altre prestazioni e la perdita dell’opportunità di lavoro, difetta in primo luogo del requisito della minaccia, non sussistendo prima della conclusione dell’accordo un diritto dell’aspirante lavoratore ad essere assunto a determinate condizioni, considerate altresì l’assenza di livelli minimi salariali (…) e l’insussistenza a favore del lavoratore subordinato di un diritto soggettivo alla parità di trattamento (…)”.
Viceversa, gli ermellini hanno ribadito che vi sarebbe estorsione del datore di lavoro laddove questi abbia già stipulato un contratto con il dipendente e, in epoca successiva, imponga allo stesso condizioni di retribuzione peggiorative rispetto a quelle concordate, a pena di licenziamento o di dimissioni “forzate”.
In questo caso, infatti, il dipendente è portatore di un diritto soggettivo rispetto alla percezione della retribuzione nei termini pattuiti e il datore conseguirebbe un ingiusto profitto, individuato nella ricezione della medesima prestazione lavorativa da parte del dipendente, ma ad un costo illecitamente ridotto.