16.07.2024 Icon

Avvocato distrattario: nessun indennizzo per irragionevole durata del processo

Secondo la Suprema Corte di Cassazione: “Applicando correttamente i principi, la Corte d’Appello ha escluso che l’avvocato distrattario possa avere diritto all’indennizzo per l’irragionevole durata del processo nel quale abbia prestato la propria opera professionale, in quanto l’istanza di distrazione, proprio per il suo carattere accessorio non può di per sé governare i tempi del processo, ma soltanto pedissequamente adeguarsi a quelli dettati per il giudizio sulla pretesa di merito”

La pronuncia in esame ha origine dalla richiesta da parte di un avvocato, alla Corte di Appello di Lecce, del riconoscimento del diritto all’equa riparazione per l’eccessiva durata di un procedimento ex. legge n. 89/2001. Il processo di cognizione de quo era stato introdotto il 12/11/2010 asseritamente anche nel suo interesse, seppure limitatamente alle spese del giudizio. Infatti, con decreto di accoglimento del 2013 si era concluso con condanna del Ministero della Giustizia alle spese legali e con distrazione in suo favore in qualità di procuratore antistatario. Con ricorso del 14/5/2015, era stato introdotto il giudizio di esecuzione innanzi al Tar di Lecce che, con sentenza pubblicata il 18/11/2019, aveva dichiarato improcedibile la domanda per difetto della dichiarazione, ex art. 5 sexies, comma 1 legge 89/01, all’Amministrazione debitrice e con la quale il creditore avrebbe dovuto attestare la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere e  la modalità di riscossione prescelta.

La Corte di Appello di Lecce, quindi, rigettava l’istanza sostenendo che il professionista nel giudizio di cognizione non fosse stato parte del procedimento per equa riparazione ma unicamente difensore distrattario.

Con ricorso in Cassazione il procuratore legale sosteneva che la Corte d’appello di Lecce non avrebbe considerato che è tutelata, secondo una consolidata giurisprudenza, dal rimedio interno dell’equa riparazione, anche la posizione del difensore che non è stato parte del processo.

In particolare, con il primo motivo, il legale lamentava <<la violazione e falsa applicazione degli artt.93 -100 e 112 c.p.c. nonché «l’omesso esame del thema decidendum ed omessa decisione sulla domanda proposta in proprio>>.

Con il secondo motivo, lamentava <<l’erronea motivazione e violazione degli artt.1 bis2 e 3, comma 1,della Legge n.89/2001 e dell’art.6 par.1 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, l’omessa applicazione dei principi di diritto affermati con la sentenza delle Sezioni Unite n. 19883/2019, l’omessa applicazione dei principi di diritto affermati con la sentenza delle Sezioni Unite n.585 del 14 gennaio 2014, l’omessa applicazione dei principi di diritto affermati con la sentenza delle Sezioni Unite n.6312/2014 e n.9142/2016>>

Per la Suprema Corte, la doglianza è inammissibile. 

In particolare, soffermandosi sulla disamina dell’art. 93 c.p.c., la Corte sostiene che l’istanza di distrazione delle spese non introduce una nuova domanda in giudizio nel quale l’avvocato antistatario, assumendo la veste di parte, sarebbe legittimata a dolersi dell’irragionevole durata del processo.  Essa, infatti, consiste nel sollecitare l’esercizio del potere/dovere in capo al Giudice, nella stessa sentenza in cui condanna alle spese, di distrarre in favore del difensore le spese anticipate e gli onorari non riscossi. Pertanto, il difensore, sostituendosi alla parte diventa legittimato a ricevere dal soccombente il pagamento delle spese processuali.

La Corte, altresì, come già ampiamento sostenuto in altre pronunce, afferma che “tale istanza non introduce, dunque, una nuova domanda nel giudizio, perché non ha fondamento in un rapporto di diritto sostanziale connesso a quello da cui trae origine la domanda principale” (Cass n. 25247/2017Cass n. 15964/2022.

Dunque, l’istanza di distrazione per i motivi sopra indicati ha carattere accessorio e il motivo è inammissibile.

Tale conclusione, contrariamente da quanto sostenuto in ricorso dal legale, non si risolve affatto in una violazione dell’art. 6 par. 1 CEDU.  Quest’ultimo, in attuazione del quale opera la legge n. 89/01, statuisce “che ogni persona ha diritto a che si svolga in tempi ragionevoli il «suo» processo, non quello di altri al quale, per ragioni diverse e interne, sia altrimenti interessata pur senza diventarne parte in senso stretto”.

Altresì, la Suprema Corte, tra l’altro, evidenza che il ricorso del legale non articola alcuno dei motivi in riferimento all’art. 360 c.p.c.. Non solo, per gli Ermellini il ricorrente ha lamentato che la Corte d’Appello non avrebbe considerato che il giudizio presupposto avrebbe dovuto essere unitariamente considerato nelle fasi di cognizione ed esecuzione fino al pagamento del Ministero e, perciò, considerato ancora in corso, che in ogni caso la procedura era durata oltre i tre anni della durata ragionevole e che l’improcedibilità era stata erroneamente dichiarata.

Anche questo motivo è inammissibile perché non coerente rispetto alla motivazione di rigetto della Corte d’appello.

Infatti, come ribadito e in corretta applicazione dei principi esposti sopra, la Corte Territoriale ha escluso la valutazione unitaria della fase di cognizione dalla fase di ottemperanza instaurata dal legale in proprio poiché avente ad oggetto il diverso diritto della parte difesa. In merito a ciò, ha quindi ritenuto questa fase di durata non eccedente i tre anni previsti per la fase di esecuzione perché, dopo aver calcolato il tempo del giudizio in 4 anni, 6 mesi e 4 giorni (dal ricorso del 14/5/2015 alla decisione del 18/11/2019), ha sottratto il tempo della sospensione disposta dal 2016 al 03/01/2019 perché l’ha imputata allo stesso avvocato, sottoposto ad un procedimento penale per aver agito in assenza di mandato alle liti proprio nei giudizi di equa riparazione.

Sul punto, l’avvocato ricorrente nulla ha dedotto.

Per concludere, essendo la decisione del ricorso conforme alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ciò implica l’applicazione del terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c..

L’art. 380-bis c.p.c., disciplinando le ipotesi di ricorso inammissibile e manifestamente infondato, configura, infatti, uno strumento di agevolazione della definizione delle pendenze in sede di legittimità. Pertanto, attraverso una valutazione legale tipica compiuta dal legislatore, il ricorso del legale configurerebbe un’ipotesi di abuso del processo. Alla luce dei motivi sopra esposti, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e ha condannato il ricorrente al rimborso delle spese processuali in favore dei Ministeri controricorrenti.

Autore Assunta Liberti

Trainee

Milano

a.liberti@lascalaw.com

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