Nel panorama sempre più articolato dei rapporti tra impresa e pubblica amministrazione, la linea di confine tra irregolarità amministrativa e illecito penale può rivelarsi sottile, soprattutto quando al centro vi è il conseguimento di vantaggi economici legati a contributi previdenziali. La sentenza n. 11969 delle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione, depositata il 26 marzo 2025 (Cass. pen., Sez. Unite, 26 marzo 2025, n. 11969), affronta con chiarezza – e con potenziali ricadute sistemiche – un interrogativo cruciale: può configurarsi il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316-ter c.p.) anche quando l’impresa non ottiene un’erogazione diretta di denaro, ma un “mero” risparmio di spesa tramite la riduzione indebita dei contributi?
La vicenda oggetto di decisione riguarda la società Alpha, ritenuta responsabile di aver indebitamente conseguito la riduzione degli oneri contributivi dovuti per le posizioni di oltre duecento lavoratori, non avendo la stessa dichiarato che i dipendenti assunti provenivano dalla messa in mobilità della società Beta, impresa sostanzialmente coincidente sotto il profilo organizzativo e imprenditoriale e, ad ogni modo, operante secondo un rapporto di collegamento o controllo con la prima.
Tale omissione costituisce infatti condizione ostativa alla contribuzione agevolata ai sensi dell’art. 8, comma 4-bis, l. 23 luglio 1991, n. 223.
La Corte d’Appello, nel ridimensionare il fatto da truffa aggravata (art. 640-bis c.p.) a indebita percezione di pubbliche erogazioni (art. 316-ter c.p.), ha valorizzato l’omissione di un’informazione dovuta come condotta penalmente rilevante, non ravvisando invece la presenza di una condotta fraudolenta integrante gli artifici o raggiri tipici della prima fattispecie. La questione centrale rimessa alle Sezioni Unite verteva dunque sulla qualificazione giuridica della nozione di “erogazione pubblica”.
Gli ermellini, in continuità con i principi già enunciati dalle precedenti pronunce a Sezioni Unite Carchivi (Cass. Pen., Sez. Un., sent. 19 aprile 2007, n. 16568) e Pizzuto (Cass. Pen., Sez. Un., sent. 16 dicembre 2010, n. 7537), hanno ribadito con sentenza Cass. pen., Sez. Unite, 26 marzo 2025, n. 11969 che: «nel concetto di conseguimento indebito di un’erogazione da parte di enti pubblici rientrano non solo le elargizioni in denaro, ma anche le esenzioni o riduzioni di somme dovute, in quanto espressione di un vantaggio economico posto a carico della collettività».
Non occorre, quindi, la materiale corresponsione di denaro da parte della P.A., ma è sufficiente il conseguimento indebito di un beneficio economico derivante da dichiarazioni false o omissioni rilevanti nel procedimento amministrativo.
L’interesse di questa decisione sta nella sua funzione chiarificatrice. Superando le residue incertezze interpretative, la Corte ha tracciato i limiti dell’art. 316-ter e valorizzato la ratio della norma, che è quella di reprimere ogni indebita acquisizione di vantaggi economici provenienti dallo Stato o da enti pubblici, indipendentemente dalla forma con cui questi si manifestano (finanziamento diretto, esenzione, contributo figurativo, ecc.). Il bene giuridico tutelato va individuato nella correttezza e trasparenza dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, e non soltanto nella difesa dell’erario da prelievi indebiti.
Il rischio – evocato dalla Corte rimettente – di una indebita estensione analogica in malam partem è stato escluso: l’interpretazione si mantiene entro i margini semantici della norma, coerentemente con i princìpi costituzionali di legalità e tassatività.
In conclusione, la sentenza si pone in linea con un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato secondo il quale non rilevano le modalità concrete di acquisizione del vantaggio né il fatto che il beneficio sia realizzato mediante compensazione nel modello contributivo e non mediante un accredito diretto, riaffermando la funzione di presidio del bene giuridico dell’equilibrio della spesa pubblica, anche nella sua dimensione indiretta.