La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in tema di procedibilità della domanda, qualora la mediazione venga avviata oltre il termine assegnato dal Giudice.
I giudici di legittimità hanno, dunque, affermato che la domanda, sia essa principale o riconvenzionale, non può considerarsi improcedibile, se la mediazione ordinata dal giudice non venga iniziata nel termine assegnato, ma si sia comunque conclusa prima dell’udienza di rinvio della causa.
L’art. 5 del D. Lgs. 28/2010, vigente all’epoca dei fatti, stabiliva che: “il giudice (…) fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di (tre mesi) quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione“.
Ebbene, lo scopo della norma è quello di favorire gli accordi conciliativi, evitando nello stesso tempo che il mancato esperimento della mediazione porti ad una sentenza di improcedibilità: “Se quindi le parti cercano una mediazione senza riuscirvi, e la mediazione si concluda con un nulla di fatto prima che il processo riprenda il suo corso, lo scopo della norma è raggiunto ed il processo è procedibile. In questi casi infatti ben poco rilievo potrà avere la circostanza che la mediazione sia stata iniziata prima o dopo la scadenza del termine di 15 giorni di cui al vecchio testo dell’art. 5 D.Lgs. 28/10 (termine, non a caso, abrogato dal D.Lgs. 149/22). Quel che conta ai fini della ratio legis è il momento in cui la mediazione termina, non il momento in cui la mediazione inizia”. Pertanto, secondo la Cassazione, l’interpretazione adottata dalla sentenza impugnata capovolge proprio la finalità della norma: “Infatti è proprio quando le parti, pur avendo cercato una mediazione, non l’abbiano trovata, che c’è bisogno del giudice. La sentenza impugnata invece, qualificando come “perentorio” il termine di cui all’art. 5, comma primo, vecchio testo, D.Lgs. 28/10, è pervenuta al paradossale risultato di negare alle parti una pronuncia sul merito della lite proprio là dove una tale pronuncia era ormai l’extrema ratio”. Inoltre, occorre considerare che tale decisione determina un aggravio di costi, costringendo le parti ad avviare una nuova mediazione ed una nuova causa, senza con ciò favorire in alcun modo la giustizia.
Infine, la Suprema Corte rileva che la rigorosa interpretazione adottata dalla sentenza impugnata è, in ogni caso, incompatibile con l’ordinamento comunitario e con i princìpi stabiliti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. “La Corte EDU infatti ha ripetutamente stabilito che, in caso di ambiguità d’una norma processuale, i giudici degli Stati membri hanno l’obbligo di preferire l’interpretazione che consenta una decisione piena sul merito, piuttosto che l’interpretazione la quale conduca ad un non liquet (così Corte EDU, sez. I, 15.9.2016, Trevisanato c. Italia, in causa n. 32610/07, parr. 42-44; Corte EDU, sez. II, 18.10.2016, Miessen c. Belgio, in causa n. 31517/12, parr. 71-73). Pertanto, anche ad ammettere che l’art. 5 D.Lgs. 28/10 fosse una norma ambigua, proprio per questa ragione il giudice di merito avrebbe dovuto interpretarla in modo consentaneo alla prosecuzione del giudizio, invece che alla sua conclusione”.
La sentenza di secondo grado è stata, quindi, cassata nella parte in cui ha ritenuto improcedibile la domanda, con rinvio alla competente Corte d’Appello.