La vicenda, giunta sino in Cassazione, ha origine dalla domanda di restituzione di una somma di denaro.
L’attore produceva in giudizio una scrittura privata con cui la parte che aveva ricevuto il prestito aveva riconosciuto il debito verso il mutuante-attore.
La mutuataria era deceduta pertanto l’attore conveniva in giudizio i suoi eredi.
Una di loro si costituiva affermando di “nutrire forti dubbi” circa l’autenticità della firma e della data posta sulla scrittura privata.
La Corte d’appello riconosceva tale dichiarazione idonea a disconoscere la scrittura privata ai sensi dell’art. 214 c.p.c..
La Suprema Corte non è però dello stesso avviso.
Il disconoscimento, si sa, non richiede l’uso di formule sacramentali o speciali, ma deve avvenire in modo non equivoco, cioè mediante la contestazione dell’autenticità della scrittura nella sua interezza oppure limitatamente alla sua sottoscrizione e non può essere considerata sufficiente una contestazione generica.
Una eccezione a tale principio va fatta solo quando il disconoscimento provenga dagli eredi, ai sensi del 2° comma del citato articolo.
Gli eredi possono limitarsi a dichiarare di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione purché ciò avvenga attraverso una volontà inequivoca, priva cioè di contraddizioni o incertezze, dalla quale far desumere la negazione dell’autenticità della scrittura o della relativa sottoscrizione.
Pertanto, nella vicenda in esame, osserva la Corte, “ci si trova in presenza di una complessiva dichiarazione inidonea a configurare un rituale disconoscimento”, in quando l’espressione utilizzata dall’erede di nutrire “dubbi” circa l’autenticità della firma della madre sulle scritture private non può certo equivalere alla “certezza” richiesta dalla legge.