La sentenza del Tribunale di Milano in commento segna un importante precedente nella giurisprudenza del lavoro digitale, stabilendo una distinzione fondamentale tra l’utilizzo disciplinare di messaggi privati su WhatsApp e contenuti pubblici su Facebook. La decisione affronta una questione sempre più ricorrente: fino a che punto il datore di lavoro può utilizzare le comunicazioni digitali del dipendente per giustificare un licenziamento?
Il caso ha origine da un licenziamento disciplinare per giusta causa intimato a un operaio del settore ambientale, assunto nell’ottobre 2021 e licenziato nell’ottobre 2024. Le contestazioni mosse dall’azienda erano molteplici e articolate su due fronti distinti: da un lato, messaggi audio e scritti diffamatori pubblicati su una chat WhatsApp aziendale; dall’altro, un post offensivo pubblicato sul profilo Facebook personale del lavoratore.
Le accuse specifiche riguardavano messaggi audio contenenti espressioni “gravemente diffamanti” nei confronti della sindaca di Lacchiarella, contenuti “aggressivi e finanche minatori” verso il comandante della polizia locale, offese al gruppo e, infine, un post su Facebook in cui il lavoratore offendeva i vigili urbani.
Il cuore della decisione risiede nell’interpretazione dell’art. 15 della Costituzione, che sancisce l’inviolabilità della libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. Il tribunale milanese ha dovuto affrontare una questione di primario interesse: se e in quale misura le moderne forme di comunicazione digitale rientrino nella tutela costituzionale della corrispondenza privata.
La difesa del lavoratore aveva contestato l’utilizzabilità delle chat WhatsApp ai fini disciplinari, richiamando una consolidata giurisprudenza di legittimità. Il giudice ha fatto riferimento al principio espresso dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 21965/2018, secondo cui i messaggi scambiati in chat private non costituiscono giusta causa di recesso, essendo “diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone”.
Il tribunale ha stabilito un principio di fondamentale importanza: anche quando il datore di lavoro apprende il contenuto di comunicazioni private attraverso terzi, senza alcuna intrusione diretta, tale conoscenza costituisce pur sempre violazione del diritto alla segretezza. Come rilevato dalla Cassazione nella recente ordinanza n. 5936/2025, “la società ricorrente ha appreso il contenuto della corrispondenza, destinata a rimanere segreta, su iniziativa di uno dei destinatari della stessa; nondimeno, tale iniziativa costituisce violazione del diritto alla segretezza”.
Il giudice ha inoltre chiarito che l’utilizzo del cellulare aziendale non modifica la natura privata della comunicazione, purché non vi sia alcun elemento che consenta a soggetti esterni alla chat di prenderne visione o venirne a conoscenza.
La decisione del Tribunale di Milano stabilisce una netta demarcazione tra due ambiti comunicativi: quello privato e quello pubblico. Mentre i messaggi WhatsApp sono stati ritenuti inutilizzabili ai fini disciplinari, il post su Facebook ha mantenuto la sua rilevanza disciplinare. Il giudice ha infatti evidenziato come il post pubblicato sul profilo Facebook fosse di “natura pubblica”, indirizzato “ad una indifferenziata platea di destinatari, ivi compreso il datore di lavoro”. Le frasi utilizzate sono state giudicate “oggettivamente e inequivocabilmente offensive”, non tutelabili dall’articolo 21 della Costituzione in quanto rappresentanti non di opinioni critiche ma di “gratuite offese prive di alcun apprezzabile pensiero compiuto”.
La condotta risultava ulteriormente aggravata dal fatto che il lavoratore aveva chiaramente indicato, nella stessa piattaforma social, il rapporto di dipendenza e le proprie mansioni di autista, creando così un collegamento diretto tra le offese e l’immagine aziendale.
Nonostante l’accertamento della rilevanza disciplinare del post su Facebook, il tribunale ha ritenuto sproporzionato il licenziamento per giusta causa. La valutazione è stata condotta considerando che la società aveva licenziato il lavoratore per il complesso di tutti i fatti contestati, quando invece l’unico comportamento disciplinarmente rilevante era rappresentato dal post Facebook, considerato “senza ombra di dubbio il meno grave” rispetto alle altre contestazioni.
La pronuncia si inserisce in un quadro giurisprudenziale in rapida evoluzione, caratterizzato da una crescente attenzione alla tutela della privacy digitale nel rapporto di lavoro. La Cassazione, con l’ordinanza n. 5936 del 6 marzo 2025, ha definitivamente chiarito che la tutela costituzionale della corrispondenza si estende pienamente alle moderne forme di comunicazione elettronica.
Diverse, sono le implicazioni pratiche del caso affrontato, soprattutto in termini di cautela nella gestione delle comunicazioni digitali. Per i datori di lavoro, emerge l’obbligo di astenersi dall’utilizzare contenuti di comunicazioni private, anche quando acquisiti fortuitamente. L’unica eccezione rimane rappresentata dalle comunicazioni a carattere pubblico, come i post sui social network aperti al pubblico. La giurisprudenza suggerisce inoltre l’opportunità di implementare codici disciplinari chiari che definiscano i comportamenti leciti e illeciti nell’uso delle piattaforme digitali. Per i lavoratori, la sentenza conferma la tutela delle comunicazioni private, ma ribadisce la necessità di mantenere un comportamento corretto nelle comunicazioni pubbliche, specialmente quando vi sia un collegamento identificabile con il rapporto di lavoro. Come evidenziato dal caso, l’indicazione del proprio ruolo professionale sui social network può aggravare le conseguenze di comportamenti inappropriati.