Come diceva Martin Luther King “La mia libertà finisce dove inizia la vostra”. Per la trattazione di questo argomento ci permettiamo di citare il celebre adagio per chiederci: in caso di manifestazioni pubbliche, dove finisce l’interesse pubblico e dove inizia l’interesse del singolo a godere del proprio appartamento in tranquillità?
Il caso vagliato dalla Corte di Cassazione vede contrapposti un Comune che organizza periodicamente, nel periodo estivo, manifestazioni culturali che si svolgono in piazza e i residenti di quella piazza che lamentano rumori oltre la normale tollerabilità che rendono difficile il soggiorno, pregiudicando il godimento dell’appartamento che costoro avevano destinato a loro residenza estiva.
I proprietari degli immobili affacciati sulla piazza hanno citato in giudizio il Comune affinché venisse accertato che gli spettacoli producevano immissioni intollerabili con conseguente condanna al risarcimento del danno.
Il Tribunale di primo grado, effettuata una consulenza tecnica dalla quale emergeva che i rumori superavano la soglia dei decibel consentiti, liquidava una somma per il ristoro del pregiudizio subito.
Il Comune impugnava la decisione e la Corte d’Appello, oltre a confermare la sentenza di primo grado, aumentava altresì la somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno.
In particolare, la Corte d’Appello si riportava alla consulenza tecnica preventiva condotta in primo grado che aveva rilevato il rumore sia a finestre chiuse che a finestre aperte, e comunque in diverse ore del giorno, ed erano state altresì assunte prove testimoniali sulle immissioni rumorose e sull’attività che le produceva.
Inoltre, la Corte d’Appello rigettava le argomentazioni del Comune che censuravano la consulenza tecnica per aver fatto riferimento, per le misurazioni, al DPCM del 1997, relativo alle attività produttive e che, a detta del Comune, non poteva applicarsi anche alle manifestazioni culturali.
Sul punto, la Corte d’Appello chiariva, per il vero, come il Tribunale non aveva fatto applicazione del cennato DPCM, ma aveva invece usato il metodo comparativo, indicato dalla giurisprudenza, secondo cui la tollerabilità va valutata caso per caso in relazione alle circostanze concrete.
I giudici di seconde cure precisavano poi che l’interesse pubblico allo svolgimento degli spettacoli non poteva comportare il sacrificio del diritto del privato oltre il limite della tollerabilità.
Il Comune ricorreva per Cassazione contro la cennata pronuncia ribadendo che il Consulente d’Ufficio avrebbe erroneamente valutato le immissioni secondo il DPCM del 1997, senza tener conto però che tale provvedimento è relativo alle attività produttive, commerciali e professionali, tra le quali certamente non rientra lo svolgimento di manifestazioni culturali e di spettacoli, non tenendo in considerazione, di contro, il regolamento delle attività rumorose adottato dallo stesso consiglio comunale nel 2004, che consente, nell’ipotesi di manifestazioni e spettacoli all’aperto, di arrivare fino al limite di 70 decibel.
La Corte di Cassazione ha subito chiarito che i limiti posti dai singoli regolamenti, compreso dunque quello richiamato dal comune, e dallo stesso comune approvato, sono puramente indicativi in quanto anche immissioni che rientrino in quei limiti possono considerarsi intollerabili nella situazione concreta, posto che la tollerabilità è, per l’appunto, da valutarsi tenendo conto dei luoghi, degli orari, delle caratteristiche della zona e delle abitudini degli abitanti, che è ciò che il consulente ha fatto.
I Giudici di Legittimità hanno poi precisato che anche un ente pubblico è soggetto all’obbligo di non provocare immissioni rumorose ed è responsabile dei danni conseguenti alla lesione dei diritti soggettivi dei privati, cagionata da immissioni provenienti da aree pubbliche, potendo conseguentemente essere condannata al risarcimento del danno, così come al “facere” necessario a ricondurre le dette immissioni al di sotto della soglia della normale tollerabilità, dal momento che tali domande non investono – di per sé – atti autoritativi e discrezionali, bensì un’attività materiale soggetta al richiamato principio del “neminem laedere”.
Infine, la Corte, nel confermare la sentenza di secondo grado, afferma che la Corte d’Appello ha tenuto conto dell’interesse pubblico ed ha correttamente osservato che lo stesso non può giustificare il sacrificio del diritto del privato oltre la normale tollerabilità.