Quando Valentino Garavani nel 1960 aprì la sua prima Boutique, esisteva già un diverso stilista operante in Italia dal 1952, tale Mario Valentino, che produceva e commercializzava inizialmente calzature e successivamente pelletteria con il nome Mario Valentino. A causa della somiglianza dei nomi e della sovrapposizione dei prodotti, sin dall’inizio le due aziende hanno avuto problemi di confusione dei consumatori, e ciò le aveva spinte a stipulare un accordo di coesistenza nel 1979. In base a tale accordo Mario Valentino era autorizzato a registrare e utilizzare all’esterno dei prodotti di pelletteria, in particolare borse, il nome completo ‘Mario Valentino’ o ‘M. Valentino’ o ‘Valentino’ o le lettere ‘MV’ o solamente ‘V’, mentre all’interno e sulla confezione di tutti i prodotti in pelle similpelle o altro materiale, doveva essere riportato il nome ‘Mario Valentino’ per esteso.
Dall’altro lato Valentino (Garavani), rispetto ai prodotti di pelletteria, poteva utilizzare la lettera ‘V’ soltanto in una specifica forma, ovvero con simbolo specifico e caratterizzante noto alle parti, che risultava allegato alla scrittura e consisteva nel seguente segno:
Tale accordo servì al suo scopo pacificatore per quasi quattro decenni, fino alla rottura avvenuta pochi anni fa. Nel 2017, infatti, la Mario Valentino S.p.A. citava in giudizio la Valentino S.p.A. per violazione degli impegni assunti con l’accordo del ’79, per contraffazione di marchi registrati dalla Mario Valentino S.p.A., nonché per il compimento di atti di concorrenza sleale ai suoi danni. Le domande dell’attrice sono state parzialmente accolte dalla Corte, nella parte in cui questa ha dichiarato che l’utilizzazione da parte della convenuta del segno distintivo rappresentato dalla lettera ‘V’ con borchie sovrapposte costituiva inadempimento dell’accordo del ’79, in quanto diverso dal segno distintivo riportante la lettera ‘V’ che gli è permesso utilizzare sulle borse in base all’accordo. Per l’effetto, la Corte ha ordinato il ritiro dal commercio di tutti i prodotti contrassegnati da tale segno, riportato di seguito:
D’altro canto, la Valentino S.p.A. costituendosi in giudizio aveva anch’essa richiesto al giudice, in via riconvenzionale, di accertare e dichiarare la messa in atto da parto della Mario Valentino S.p.A. di condotte in violazione del discusso accordo del ’79. Tali violazioni consistevano nell’accostamento dei segni ‘V’ e ‘Valentino’ sui suoi prodotti di pelletteria, e in particolare sulle borse.
In risposta a tali istanze, il Tribunale di Milano ha dichiarato in maggio che Mario Valentino non ha rispettato il contratto legalmente vincolante tra le parti “vendendo numerosi modelli di borse etichettate in modo non consentito dall’accordo di coesistenza” e dando così luogo “al tipo stesso di confusione del consumatore che l’accordo intendeva evitare“. Il giudice ha, infatti, interpretato le previsioni dell’accordo del ’79 nel senso che Mario Valentino è autorizzato ad usare il segno ‘V’ o ‘Valentino’ in via alternativa all’esterno delle borse e sulle confezioni, ma non può usare tali segni in combinazione tra loro. In aggiunta, ha rilevato la mancata apposizione all’interno di detti prodotti e sul packaging del segno ‘Mario Valentino’ per esteso come previsto dall’accordo del ’79. Il Tribunale ha quindi inibito all’attrice la prosecuzione di tali condotte.
In conclusione, si può dire che la causa di primo grado si sia chiusa con una vittoria parziale per entrambe le parti. Attualmente, però, è in corso un’altra causa tra le due case di moda italiane avanti al Tribunale Federale della California. Solo un mese dopo la pronuncia italiana, infatti, nel giugno scorso la Valentino S.p.A. ha intentato causa contro Mario Valentino e la sua licenziataria americana Yarch Capital LLC, accusando le due di contravvenire all’accordo del ’79 per concorrenza sleale, pubblicità ingannevole e violazione dei brevetti di design (il caso è Valentino S.p.A., v. Mario Valentino S.p.A.; Yarch Capital, LLC, 2:19-cv-6306 – C.D.Cal.).
L’attrice ha richiesto un provvedimento ingiuntivo che vieti agli imputati di “compiere qualsiasi atto che inganni o possa ingannare i consumatori circa l’origine dei loro beni” e di vendere qualsiasi prodotto che violi i brevetti di design delle proprie borse.
In attesa di sapere quale sarà la decisione della Corte californiana, ciò che è certo è che sono stati ridefiniti i termini di coesistenza tra i due marchi, che sono ad oggi tenuti a adeguare la propria produzione alle indicazioni date dal Tribunale di Milano.
Tribunale di Milano, 7 maggio 2019, n. 4346Francesca Leoni – f.leoni@lascalaw.com
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