La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 156/2025 depositata il 30 ottobre 2025, ha pronunciato una decisione di grande rilievo nel diritto sindacale italiano, scardinando il sistema di selezione dei sindacati ammessi alle prerogative della tutela rafforzata di secondo livello, in particolare mediante la costituzione della Rappresentanza Sindacale Aziendale (RSA).
Il giudizio ha avuto origine dal ricorso presentato dalla Organizzazione sindacale autonomi e di base ORSA – Settore trasporti autoferro TPL, per l’accertamento della natura antisindacale del diniego opposto dalla Società emiliana trasporti filoviari SETA spa relativamente alla costituzione di una RSA presso un’unità produttiva.
Nella fattispecie l’organizzazione sindacale, pur non essendo firmataria del contratto collettivo applicato in azienda e pur essendo esclusa dalle trattative negoziali per la stipula del medesimo contratto, dimostrava tuttavia una conclamata rappresentatività all’interno dell’unità produttiva, quale risultava dalla certificazione del numero di iscritti (superiore al 20 per cento dei lavoratori sindacalizzati, pari al 10 per cento della forza lavoro complessiva), dall’elevata adesione agli scioperi del sindacato e dalla raccolta di firme di oltre la metà dei dipendenti per la richiesta di elezioni della Rappresentanza Sindacale Unitaria (RSU).
L’art. 19, primo comma, dello Statuto dei lavoratori costituisce l’architrave della tutela rafforzata riconosciuta agli enti sindacali rappresentative di base. La disposizione censurata prevedeva, al momento della pronuncia, che la RSA potesse essere costituita «ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva».
Il Tribunale di Modena sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 in riferimento agli artt. 3 e 39 della Costituzione, evidenziando che la norma, nella parte in cui escludeva le associazioni sindacali «maggiormente o significativamente rappresentative» dalla possibilità di costituire RSA, violava il principio di ragionevolezza e il pluralismo sindacale.
Il rimettente denunciava l’esistenza di un “vuoto di tutela costituzionalmente illegittimo”: il ricorso all’art. 28 dello Statuto (repressione della condotta antisindacale) risultava inefficace qualora l’impresa, esercitando la propria discrezionalità negoziale, escludesse già a monte un sindacato dalle trattative, poiché tale comportamento non realizzava una discriminazione rispetto alle altre organizzazioni, ma piuttosto una sistematica esclusione dal tavolo negoziale, rendendone impossibile la sottoscrizione del contratto e, conseguentemente, l’accesso alle prerogative della RSA.
La Corte, nel pronunciarsi sul merito, ha proceduto a un’articolata analisi della dialettica tra il “rapporto di forza” tra azienda e sindacato e le “istanze pluralistiche” che il diritto costituzionale impone. Da un lato, la difesa di SETA spa si basava sulla logica secondo cui un sindacato che non riesca a imporsi come interlocutore negoziale dimostrerebbe già con ciò di mancare del necessario consenso tra i lavoratori. Dall’altro, il rimettente e gli amici curiae denunciavano come gli indici negoziali della firma e della partecipazione alle trattative potessero servire quale espediente per l’esclusione strategica di organizzazioni sindacali “scomode”, non in ragione della loro effettiva rappresentatività, ma della differente rivendicatività delle loro piattaforme.
La Corte ha sottolineato come la propria giurisprudenza precedente si fosse sviluppata in prospettiva di mediazione tra queste visioni antitetiche. Benchè il criterio della firma contrattuale, inteso correttamente quale indice di effettiva partecipazione attiva al processo di formazione del contratto, fosse stato ritenuto non violare, di per sé, i principi costituzionali di ragionevolezza e pluralismo, emergeva tuttavia il rischio concreto di distorsioni determinate dal potere datoriale di accreditamento.
Un profilo decisivo della sentenza riguarda la ricostruzione del rapporto tra libertà negoziale del datore di lavoro privato e diritti del sindacato rappresentativo. La Corte ha affermato che, per costante giurisprudenza di legittimità, il datore di lavoro privato «non ha l’obbligo di trattare con tutte le organizzazioni sindacali, in quanto non vige il principio di parità di trattamento fra le stesse». Tuttavia, essa ha evidenziato come «nell’interstizio tra la libertà dell’impresa di trattare con chi vuole e il diritto del sindacato rappresentativo di accedere alle prerogative di legge si apre il vuoto di tutela, costituzionalmente illegittimo».
La Corte ha precisato che se la libertà negoziale del datore di lavoro non può essere compressa (trattandosi manifestazione della libertà di iniziativa economica), non può tuttavia tradursi in «un surrettizio ostacolo al godimento delle misure di agibilità che la legge riconosce alle associazioni rappresentative dei lavoratori». Cruciale, a questo riguardo, è la constatazione secondo cui il criterio della trattativa – così come quello della firma – quando non realizza la funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro effettiva rappresentatività, trasformandosi in meccanismo di esclusione di soggetti effettivamente rappresentativi, entra in collisione con i principi di ragionevolezza e pluralismo sanciti dagli artt. 3 e 39 della Costituzione.
La Corte ha inoltre riconosciuto come il rischio che il criterio della trattativa diventi espediente finalizzato all’esclusione possa manifestarsi «in forme più o meno scoperte»: non solo mediante il formale diniego di accesso al tavolo negoziale, ma anche attraverso l’opposizione di una piattaforma inaccettabile e non negoziabile, ovvero il rifiuto generalizzato di aprire trattative con qualunque sigla.
Riconosciuto l’illegittimità costituzionale, la Corte ha dovuto affrontare la spinosa questione della individuazione del rimedio, operando una scelta tra molteplici opzioni. Il rimettente proponeva due alternative: in via principale, una pronuncia radicalmente ablativa che affidasse completamente ai giudici ordinari il compito di misurare l’effettiva rappresentatività, oppure, in via subordinata, una pronuncia additiva che estendesse la legittimazione a costituire RSA ai sindacati con rappresentatività “significativa o maggioritaria” su base aziendale.
La Corte ha rigettato la soluzione demolitoria completa ritenendola in contrasto con la giurisprudenza costante che evidenzia la necessità di criteri selettivi per l’accesso alla tutela di secondo livello. Ha altresì rigettato il ricorso ai concetti di “rappresentatività maggioritaria” o “significativa” ritenendoli «inutilizzati o quantomeno desueti nelle fonti legislative» e non adatti a fornire una base normativa solida.
Invece, la Corte ha optato per il criterio della rappresentatività comparativa su base nazionale, mutuandolo da numerosi precedenti legislativi. Tale parametro figura infatti nell’art. 2, comma 1, lettera m), del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, relativamente ai sindacati comparativamente più rappresentativi; nell’art. 8, comma 1, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, relativo alla contrattazione collettiva di prossimità; nell’art. 51, comma 1, del d.l. 15 giugno 2015, n. 81; e più recentemente nell’art. 11, comma 1, del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, e nell’art. 2, comma 1, lettera e), della l. 15 maggio 2025, n. 76.
Tale soluzione, benché operi su base nazionale, non costituisce una «riedizione» della lettera a) dell’originario art. 19, abrogata dal referendum del 1995, poiché quella lettera si riferiva all’affiliazione confederale (criterio di tipo associativo), mentre il criterio della comparatività misura l’effettiva forza rappresentativa. La Corte ha inoltre evidenziato come il legislatore sovente collochi in relazione le associazioni sindacali «comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» con le loro «rappresentanze sindacali aziendali», segnalando una continuità concettuale già nelle fonti ordinamentali.
La sentenza rappresenta una pronuncia di notevole rilievo per il diritto sindacale italiano, estendendo la tutela rafforzata di secondo livello (RSA) anche agli sindacati che, pur non essendo firmatari dei contratti collettivi applicati in azienda e pur essendo esclusi dalle trattative negoziali, posseggono caratteri di comparatività rappresentativa sul piano nazionale.
La decisione non ignora la complessità della dialettica tra libertà negoziale dell’impresa e principi pluralistici costituzionali, ma mira a colmare il “vuoto di tutela” mediante l’adozione di un parametro normativo già consolidato nel tessuto ordinamentale italiano, seppure da considerare quale soluzione interinale.
Il legislatore rimane infatti destinatario di un chiaro invito della Corte: elaborare una disciplina organica e sistematica che, pur valorizzando l’effettiva rappresentatività aziendale quale criterio di accesso alla tutela promozionale, fornisca certezza procedurale e eviti le distorsioni che possono scaturire dall’asimmetria informativa e dal potere datoriale di selezione degli interlocutori negoziali nel settore privato.
24.10.2025