Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dagli amministratori di una società avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Perugia li aveva condannati in solito al risarcimento, a favore del fallimento della società stessa, del danno derivante da alcune condotte di mala gestio, consistenti, in particolare, in (i) falsa redazione di un verbale del c.d.a., nel quale era stata attestata la presenza dell’intero consiglio, quando in realtà erano presenti solo i soggetti sottoscrittori del verbale, (ii) omessa convocazione dell’assemblea dei soci nel termine di cui all’art. 2478-bis c.c. per l’approvazione del bilancio di esercizio, (iii) omessa convocazione dell’assemblea dei soci al fine dell’adozione delle misure previste dall’art. 2482-ter c.c., pur avendo la società subito perdite superiori al terzo del capitale, che lo avevano ridotto al di sotto del limite legale e (iv) la prosecuzione dell’attività d’impresa nonostante la perdita del capitale sociale, nonostante l’assemblea avesse nominato altri in tale ruolo.
Gli amministratori esecutivi denunciavano, tra le altre cose, la violazione degli artt. 2476, 2478-bis, 2482-ter c.c. e dell’art. 41 c.p., per non avere la Corte d’appello liquidato il danno con riguardo a specifiche condotte gestorie inadempienti, ma col criterio dei c.d. netti patrimoniali.
La Corte, nel rigettare il ricorso, ha ricordato in primo luogo che l’art. 2486, comma 1, c.c. dispone che, al verificarsi di una causa di scioglimento della società e fino alla sua messa in liquidazione, gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, stabilendo il secondo comma che essi sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti o omissioni in violazione di quel precetto. In tale contesto, colui (società o terzi) che agisce in giudizio con azione di risarcimento nei confronti degli amministratori di una società di capitali che abbiano compiuto, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, attività gestoria non avente finalità meramente conservativa del patrimonio sociale ha l’onere di allegare e provare l’esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società ed il successivo compimento di atti gestori da parte degli amministratori, ma non è tenuto a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d’impresa e non abbiano una finalità liquidatoria; spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d’impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari per specifiche ragioni (Cass., sez. I, 27 aprile 2023, n. 11041; Cass., sez. I, 5 gennaio 2022, n. 198).
Dal punto di vista dei criteri di liquidazione del danno, la Corte ha poi evidenziato come siano stati da tempo elaborati in giurisprudenza alcuni criteri, che rispondono all’esigenza di costituire parametri per la liquidazione equitativa del danno, qualora esso, pur certo, sia di impossibile o difficile specifica determinazione, in ragione proprio delle peculiari vicende afferenti la vita societaria. Si è, quindi, ammessa la liquidazione del danno in via equitativa, secondo due principali criteri ausiliari: (a) il primo, detto del c.d. deficit fallimentare o criterio differenziale, che individua il danno nella differenza tra l’attivo acquisito valutato nella prospettiva di realizzo e il passivo accertato all’interno della procedura concorsuale (cfr. Cass., sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100; Cass., sez. I, 3 gennaio 2017, n. 38; Cass., sez. I, 1° febbraio 2018, n. 2500; Cass., sez. III, 7 novembre 2019, n. 28617; Cass., sez. I, 6 novembre 2023, n. 30851); (b) il secondo, utilizzato prima dal Tribunale e poi dalla Corte d’appello di Perugia nel caso in commento, è il criterio dei c.d. netti patrimoniali, che individua il danno nella differenza tra il valore del patrimonio netto esistente al momento del verificarsi della causa di scioglimento e valore del patrimonio netto al momento della cessazione dalla carica o, se sussista sino a tale momento il nesso causale, sino all’apertura della procedura concorsuale (cfr. Cass., sez. I, 20 aprile 2017, n. 9983; Cass., sez. I, 30 settembre 2019, n. 24431; Cass., sez. I, 23 giugno 2020, n. 12341; Cass., sez. I, 18 luglio 2023, n. 20979).
Tale ultimo criterio si rivela, secondo la Corte, particolarmente indicato in casi, come quello di specie, in cui l’attore, una volta allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, abbia evidenziato l’esistenza di ragioni impeditive di un rigoroso accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta, dovute, ad esempio, all’incompletezza dei dati contabili o alla notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento o liquidazione giudiziale.
Inoltre, entrambi i criteri di liquidazione sopra descritti, dovuti all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, sono stati recepiti dal legislatore con l’art. 14, lett. e), legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 e d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, il cui art. 378, comma 2 ha aggiunto il terzo comma dell’art. 2486 c.c., che contempla i due diversi criteri per la determinazione del danno e i relativi ambiti di applicazione. Tale norma ha dunque codificato il meccanismo di liquidazione equitativa del pregiudizio secondo i precedenti approdi della giurisprudenza, confermando che il giudice, ove sia dedotta (e provata) la fattispecie di responsabilità, deve utilizzare, secondo l’art. 2486, comma 3, c.c., i netti patrimoniali onde liquidare il danno, a meno che in causa non siano dedotti e individuati elementi di fatto legittimanti l’uso di un diverso criterio liquidatorio più aderente alla realtà del caso concreto. Peraltro, la Suprema Corte ha precisato che detta norma si applica anche ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, in quanto volta a stabilire un criterio valutativo del danno (cfr. Cass., sez. I, 28 febbraio 2024, n. 5252).
Pertanto, nel caso di specie la Corte d’appello di Perugia, esaminate le condotte di mala gestio e le operazioni non conservative, rilevandone i fini estranei ad una gestione della società come volta alla mera conservazione della integrità del patrimonio sociale, nonché constatata l’impossibilità (confermata dalla c.t.u. svolta in corso di causa) di procedere a una ricostruzione analitica delle voci di danno dovuta all’incompletezza dei dati contabili e soprattutto all’indicazione di dati di bilancio non veritieri, ha correttamente liquidato il danno secondo il criterio dei netti patrimoniali.
Alla luce di quanto esposto, i Giudici di legittimità hanno formulato il seguente principio di diritto: “In tema di responsabilità degli amministratori di società di capitali per il compimento di atti gestori non conservativi dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, i criteri di liquidazione del danno previsti dall’art. 2486, comma 3, c.c., come modificato dall’art. 378, comma 2, del D.Lgs. n. 14/2019, costituiti dalla differenza dei netti patrimoniali e dal deficit patrimoniale, attengono ad una valutazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c. e sono applicabili – a meno che in causa non siano dedotti e individuati elementi di fatto legittimanti l’uso di un diverso criterio liquidatorio più aderente alla realtà del caso concreto – anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore della citata norma”.
La Suprema Corte ha altresì rigettato gli ulteriori motivi di ricorso formulati dagli amministratori e i ricorsi e controricorsi incidentali proposti dalle altre parti del giudizio, ritenendoli inammissibili o manifestamente infondati.