«Rispetto l’operato dei ministri, ma io ho il problema di vendere il debito pubblico». Il titolare dell’Economia Giancarlo Giorgetti, intervistato dal direttore del Sole 24 Ore, Fabio Tamburini, fissa con chiarezza i termini del dibattito sulla Nadef attesa in consiglio dei ministri giovedì 28, che come a ogni vigilia è percorso da cifre e ipotesi di ogni tipo, non tutte disinteressate. E nel suo intervento su «Le buone leggi. Semplificare per far ripartire l’Italia», che ieri ha riunito al Tempio di Adriano a Roma quasi tutto l’Esecutivo sotto la regia della ministra per le Riforme istituzionali Elisabetta Casellati, ha fissato la questione chiave intorno alla quale ruota la sorte dei nostri conti pubblici.
Il «numero» del deficit 2024, ha ribadito il titolare dei conti, sarà «ragionevole», perché è chiamato a «dimostrare la volontà del Paese di tornare a una politica fiscale prudente e compatibile con il nostro livello di debito». E questo imperativo è dettato appunto dall’esigenza di «convincere la gente ad avere fiducia e comprare debito pubblico. A me non fa paura la commissione Ue, mi fanno paura le valutazioni dei mercati» riassume Giorgetti derubricando l’idea che una regola contabile più o meno “illuminata” possa aprire spazi sconfinati alle manovre italiane. Tra la gente da «convincere» ci sono anche i risparmiatori che dal 2 al 6 ottobre, quindi con l’inchiostro della Nadef ancora caldo, si vedranno offrire il nuovo BTp Valore dopo il record dei 18,19 miliardi raccolti a giugno. Ma la platea con cui dialogare è assai più ampia, soprattutto dopo il tramonto degli acquisti pandemici della Bce. In questo scenario un deficit 2024 «ragionevole» dovrebbe attestarsi entro il 4%, non lontano dal 3,7% indicato dal Def, per non cancellare una discesa 2024 del debito che già ad aprile era prevista lenta (0,7% del Pil) con una crescita tendenziale all’1,4% ora in flessione nei dintorni dell’1%. Il messaggio agli altri ministri e alla maggioranza, chiamati ad affrontare le «forche caudine» dell’algebra prima che della politica, ancora una volta suona chiaro. E suona chiaro anche agli enti territoriali, che tuttavia con il presidente della Conferenza delle Regioni Massimiliano Fedriga (presidente del Friuli Venezia Giulia) si sono mostrate consapevoli degli orizzonti stretti offerti dalla finanza pubblica. «Lo dico senza interessi diretti perché nella mia Regione (autonoma, ndr) la sanità è finanziata dalle compartecipazioni – ha spiegato – ma se c’è una sola priorità quella deve essere il fondo sanitario». Che però per Fedriga non deve giustificare spese a piè di lista senza controllo, dal momento che «molte prescrizioni inutili gonfiano la spesa senza aumentare il diritto alla salute dei cittadini».
L’attenzione ai mercati su cui si concentra Giorgetti non significa che il negoziato in corso sul nuovo Patto di stabilità sia irrilevante. Anzi. L’Italia continua a premere per un trattamento di favore delle spese per la Difesa, aiuti all’Ucraina in particolare, e degli investimenti del Pnrr. E dopo i vertici della scorsa settimana a Santiago de Compostela l’orizzonte sembra schiarirsi, per far trasparire un «compromesso» che Giorgetti riassume in una possibile doppia rinuncia: quella tedesca a imporre una riduzione del debito di almeno l’1% all’anno, e quella italiana ad affidare integralmente i piani di aggiustamento ai negoziati con la Commissione senza un obiettivo numerico minimo valido per tutti. «Credo che l’accordo si raggiungerà, se non a ottobre entro Natale», scommette Giorgetti confidando anche nel fatto che la frenata della crescita complicherebbe a molti la gestione di un pieno ritorno in auge delle vecchie regole. Senza correttivi, il rispetto dei parametri Ue sarebbe «matematicamente impossibile per l’Italia», alle prese anche con la doppia eredità del Superbonus («80 miliardi in continuo aumento da pagare sul debito nei prossimi tre-quattro anni») e delle «spese importantissime di investimento finanziate coi prestiti del Next Generation». Anche qui l’Italia è primatista: nella distribuzione complessiva dei fondi i 122,6 miliardi di prestiti chiesti dall’Italia, che pesa per poco più del 15% sull’economia europea, rappresentano il 41% del totale.
Nell’ottica del Governo la crescita zoppica anche perché i rialzi a ripetizione dei tassi «hanno raggiunto brillantemente l’obiettivo di rallentare l’economia», dice il ministro con una nuova stoccata alla Bce, mentre il ritorno dell’inflazione al 2% resta «di là da venire». E i mal di pancia italiani si spiegano con il fatto che la corsa dei tassi colpisce di più dove c’è più debito. Già il Def prevedeva per il 2024 una spesa per interessi in crescita di oltre 9,5 miliardi (da 75,6 a quasi 85,2), mentre i calcoli aggiornati parlano ora di un aumento di 14-15 miliardi. In pratica, la spesa 2023 dovrebbe avvicinarsi agli 80 miliardi per salire verso i 95 l’anno prossimo, appunto 15 in più che andranno «compensati con altri “meno” in bilancio». Soldi che con i tassi di due anni fa «avremmo potuto mettere sul fisco», e che ora «non ci sono più» con il risultato che «una manovra di bilancio è stata portata via dalla rendita finanziaria».