Nel bel mezzo del coronavirus, quando ormai gli occhi erano altrove, una sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite chiude una delle ferite finanziarie più dolenti degli ultimi decenni in Italia: quella procurata dai derivati che le banche hanno venduto a Comuni, Province, Regioni e aziende private. La Cassazione ha stabilito infatti che nel contratto derivato la banca deve (e doveva anche prima della riforma del 2008) informare la controparte sul «mark to market» (il valore di mercato del derivato), sui costi impliciti che i derivati incorporano e sugli scenari probabilistici. Se non lo ha fatto, anche prima del 2008, il derivato diventa nullo. Si tratta di una sentenza, nata da un caso che opponeva il Comune di Cattolica a Bnl (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), che fa giurisprudenza. Una sentenza «storica», come dice il viceministro dell’Economia Laura Castelli. A cui tutti i Tribunali dovranno adeguarsi.
La domanda è: che impatto avrà in Italia? Attualmente, secondo i dati del Mef, 149 Enti Locali (Comuni, Province e Regioni) hanno in essere 294 contratti derivati per un valore nominale di 9,5 miliardi di euro. Ma buona parte di questi sono derivati nuovi (successivi al 2008). Quelli vecchi, davvero impattati dalla sentenza, secondo gli addetti ai lavori sono ormai sempre meno. Perché tanti sono stati chiusi in questi anni, con transazioni o con sentenze. O rinegoziati. Ma un impatto la sentenza l’avrà comunque: perché non fa giurisprudenza solo per gli Enti Locali, ma anche sulle imprese che hanno ancora in corso contenziosi con le banche per i derivati.
Lo spiega al Sole 24 Ore anche Carla Raineri, presidente della prima Sezione Civile-specializzata imprese della Corte d’Appello di Milano ed estensore di una sentenza che nel 2013 anticipò molti dei temi oggi trattati dalla Cassazione: «La sentenza costituisce un fondamentale punto di riferimento per tutti i giudici chiamati a decidere su questa delicata e complessa materia – spiega -. I principi universali ivi sanciti trascendono la singola fattispecie e potranno trovare applicazione non solo ai derivati degli Enti locali, ma anche a quelli stipulati dalle imprese».
Di parere analogo tutti gli altri addetti ai lavori interpellati dal Sole 24 Ore. Se Luca Zamagni (avvocato che con vari colleghi ha assistito il Comune di Cattolica davanti alla Cassazione) definisce la sentenza «una stella polare per l’intero contenzioso in materia di derivati tra intermediari finanziari e clienti italiani», Nicola Benini di Ifa Consulting sostiene che «la sentenza potrà avere effetti rilevanti anche sui contenziosi che riguardano le imprese». Anche Paolo Chiaia, di Calipso, la pensa allo stesso modo: «L’impatto sarà significativo». Tutti d’accordo.
Motivo: la Suprema Corte ha scritto sulla pietra principi su cui per anni Tribunali, avvocati e consulenti si sono scontrati. Ora non c’è più da discutere. Affinché il contratto sia lecito – scrive la Cassazione – è necessario che ci sia un «accordo tra intermediario e investitore sulla misura dell’alea». E tale accordo – continua la Corte – «non deve limitarsi al mark to market, ma investire altresì gli scenari probabilistici». Non solo: «Esso dovrebbe concernere (…) la misura dei costi pur se impliciti». Insomma: la banca deve informare la controparte sul mark to market, sui costi impliciti e sulle probabilità che il derivato vada in perdita. Se non l’ha fatto, il derivato è nullo. Non solo: la Corte sancisce anche che l’incasso di denaro da parte dell’Ente locale al momento della stipula (upfront) costituisce un debito, dunque va autorizzato dal Consiglio.