31.10.2025 Icon

Niente assegno di divorzio se rifiuti un lavoro: la Cassazione dice basta alla “rendita da ex coniuge”

Con l’ordinanza n. 25523 del 17 settembre 2025 la Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, ha stabilito che il coniuge divorziato non ha diritto a percepire l’assegno di divorzio se rifiuta un’offerta di lavoro seria e congrua, anche se proveniente da una società collegata all’ex marito. La decisione segna un nuovo punto fermo nel percorso evolutivo dell’assegno divorzile, ormai sempre più ancorato ai principi di autoresponsabilità e solidarietà post-matrimoniale equilibrata.

Il caso: rifiuto dell’offerta di lavoro e revoca dell’assegno

Il caso riguardava una ex moglie che, dopo il divorzio, percepiva un assegno di 48.000 euro annui. Nel corso di un giudizio di revisione, l’ex marito aveva favorito un’offerta di lavoro per la donna presso una società collegata alla propria, con contratto a tempo indeterminato, inquadramento da impiegata di concetto di quinto livello, retribuzione sostanzialmente equivalente all’assegno e polizza assicurativa a fini pensionistici. L’ex moglie aveva tuttavia rifiutato la proposta, sostenendo che non fosse seria, che le mansioni non corrispondessero alla sua (inesistente) formazione professionale e che, in quanto proveniente da un soggetto riconducibile all’ex coniuge, non garantisse indipendenza e stabilità.

La Corte d’Appello di Ancona aveva ritenuto l’offerta congrua e idonea a garantire autonomia economica, revocando così l’assegno divorzile. La decisione è stata confermata dalla Cassazione, che ha ribadito che l’assegno non costituisce una rendita a tempo indeterminato né legittima l’ex coniuge a un atteggiamento di inerzia confidando sul sostegno dell’altro. Il principio di autoresponsabilità impone, infatti, che il beneficiario dell’assegno si attivi per rendersi economicamente indipendente e non rifiuti un’occupazione seria, anche se meno vantaggiosa rispetto al tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Secondo la Suprema Corte, l’offerta di lavoro formulata alla donna doveva essere considerata un’occasione “rara” nel mercato, corredata da garanzie economiche e previdenziali adeguate, e il rifiuto di accettarla ha fatto venir meno in radice il presupposto per la corresponsione dell’assegno. I giudici hanno sottolineato che la solidarietà post-coniugale, pur essendo un valore costituzionale, deve essere coniugata con la lealtà e la buona fede nei rapporti reciproci, che impongono a ciascuno di farsi carico delle proprie responsabilità.

La sentenza conferma un orientamento ormai consolidato: l’assegno di divorzio non può essere considerato uno strumento di assistenza perpetua, ma deve mirare a favorire l’autonomia e la dignità del coniuge economicamente più debole, tenendo conto della sua reale impossibilità di procurarsi mezzi adeguati. Se esiste la possibilità di un inserimento lavorativo concreto e dignitoso, l’ex coniuge è tenuto ad accettarla, anche a costo di un sacrificio ragionevole.

L’evoluzione giurisprudenziale: da assistenza a autonomia

La Cassazione, in linea con precedenti pronunce (Cass. SS.UU. n. 18287/2018 e n. 32198/2021), ribadisce così che l’assegno divorzile ha natura composita – assistenziale, perequativa e compensativa – ma il suo presupposto resta sempre l’inadeguatezza dei mezzi e l’impossibilità di procurarseli per cause oggettive. Chi si sottrae volontariamente a un’occasione di lavoro, dimostrando di poter raggiungere un’indipendenza economica, perde il diritto alla prestazione economica.

Questa decisione, oltre a riaffermare il principio di responsabilità personale, segna anche un cambio culturale: non è più accettabile una logica assistenzialistica che trasformi l’assegno divorzile in una forma di rendita perpetua. La solidarietà post-matrimoniale resta, ma non può sostituire l’impegno individuale nel costruire la propria autonomia.

Autore Ilaria Franciosa

Associate

Milano

i.franciosa@lascalaw.com

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