11.11.2025

Paura, nuove competenze e produttività: l’intelligenza artificiale riscrive il lavoro

  • Il Sole 24 Ore

Ogni rivoluzione tecnologica ha portato con sé paure e promesse. Ma quella dell’intelligenza artificiale ha un tratto che la distingue da tutte le altre: la velocità. È come se il futuro fosse già iniziato e nessuno avesse ancora avuto il tempo di accorgersene. In pochi mesi, sistemi generativi come ChatGPT o Claude sono entrati nei flussi di lavoro di milioni di persone. Eppure, i dati dicono che il mercato del lavoro, almeno per ora, non è crollato. L’Ai transformation è cominciata, ma più come un’onda lunga che come uno tsunami. Forse anche per questo fa più paura.

Secondo un’analisi del Financial Times, che ha incrociato indagini su larga scala e microdati di settore, l’intelligenza artificiale non sta ancora distruggendo posti di lavoro su vasta scala. Le indagini sui lavoratori di Stati Uniti, Regno Unito e Europa occidentale non mostrano un legame chiaro tra esposizione all’AI e calo dell’occupazione. Ma se allarghiamo la lente e osserviamo settori specifici, qualche crepa si intravede. I primi segnali arrivano dal mondo del lavoro online: i freelance — grafici, copywriter, traduttori — hanno visto diminuire commesse e compensi dopo l’arrivo di ChatGPT. È la prima linea della disruption, dove il confine tra un compito e un mestiere si assottiglia fino a scomparire.

Anche i giovani programmatori americani sembrano soffrire. Uno studio dello Stanford Digital Economy Lab mostra che l’occupazione dei junior developer è calata del 20% rispetto al 2022. È un effetto diretto dei modelli linguistici? Forse. Ma c’è anche il contraccolpo della stretta monetaria americana e il ridimensionamento post-pandemia delle big tech. Il confine tra correlazione e causalità resta sottile.

In Europa, la fotografia è ancora diversa. In Svezia, per esempio, un’indagine del sindacato Unionen — 700 mila iscritti, una delle più grandi organizzazioni al mondo per i lavoratori del terziario — mostra che due terzi delle aziende hanno già introdotto concretamente strumenti di intelligenza artificiale. Eppure, nell’80% dei casi, non si è registrato alcun effetto sull’occupazione.

Un 10% segnala addirittura un aumento dei posti di lavoro. Ma c’è un segnale interessante: tra le imprese che pianificano nuove adozioni di AI nei prossimi mesi, la percentuale di chi si aspetta una riduzione del personale raddoppia, al 20%. La fase sperimentale sta lasciando spazio a quella dell’efficienza.

È qui che l’Ai transformation mostra il suo vero volto: non come distruzione improvvisa, ma come una lenta ristrutturazione del lavoro cognitivo. I sistemi generativi non sostituiscono le persone, sostituiscono i compiti. Il lavoro si scompone in attività più o meno automatizzabili. Il rischio maggiore riguarda le professioni dove il mestiere coincide con l’esecuzione di un compito preciso e ripetitivo. Scrivere un testo pubblicitario, disegnare un logo, tradurre una scheda prodotto. Ma man mano che saliamo nella complessità, l’Ai diventa più un assistente che un sostituto. Chi definisce i problemi, negozia soluzioni, tiene conto del contesto e delle persone, resta centrale.

È la stessa logica che Demis Hassabis, Ceo di Google DeepMind, ha riassunto in una frase durante un convegno ad Atene: «La competenza più importante sarà imparare a imparare». Non basta più possedere un sapere: bisogna saperlo aggiornare continuamente, collegando discipline diverse e reinterpretando le tecnologie che cambiano. La capacità di ibridare — mettere insieme scienza e umanesimo, matematica e creatività — diventa la nuova frontiera della produttività.

La verità, però, è che nessuno sa davvero come sarà il mondo del lavoro tra cinque o dieci anni. Lo storico Yuval Noah Harari lo ha detto senza mezzi termini: «È la prima volta nella storia che non abbiamo alcuna idea delle caratteristiche fondamentali della società del futuro». Sappiamo solo che cambierà tutto. Ma non è la prima volta che ci spaventiamo. Vent’anni fa, la paura era l’offshoring: si temeva che ogni lavoro intellettuale sarebbe finito in India. Oggi, gli stessi contabili, radiologi e programmatori sono ancora lì, forse più efficienti, certo più digitali.

Non tutte le professioni, però, sono esposte allo stesso rischio. I mestieri manuali — muratori, idraulici, elettricisti — restano difficili da automatizzare. I robot di DeepMind sanno piegare i panni, ma non sanno ancora rifare un impianto elettrico o salire su un tetto. Anche i lavori di cura — insegnare, assistere, accompagnare — restano profondamente umani. Come osserva Anna Thomas dell’Institute for the Future of Work, capire che cosa l’Ai non sa fare sarà una competenza tanto preziosa quanto saperla usare.

E poi c’è un altro rischio, più sottile: quello cognitivo. Più ci affidiamo ai sistemi di Ai per leggere, riassumere e spiegare, più rischiamo di perdere la capacità di interpretare da soli la complessità. Uno studio recente mostrava che solo il 5% degli studenti americani riusciva a comprendere davvero le prime righe di Bleak House di Dickens. Chi resta capace di orientarsi nei significati, nei testi densi, nella realtà che non si lascia semplificare da un algoritmo, sarà avvantaggiato.

Per questo, prepararsi all’Ai transformation non significa soltanto studiare nuove tecnologie. Significa tornare a leggere, a comprendere, a pensare criticamente. Il futuro del lavoro non sarà solo per chi sa programmare, ma per chi saprà dare senso alle macchine che programmano il mondo.