02.10.2025

Non deducibile l’Iva dopo l’adesione per fatture false

  • Il Sole 24 Ore

L’Iva indetraibile connessa a fatture soggettivamente inesistenti a seguito di un procedimento di adesione all’accertamento non può essere dedotta dal reddito. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 26340/2025.

Una società definiva in adesione una contestazione di indetraibilità Iva per utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti. Successivamente ha chiesto il rimborso dell’Ires derivante da una dichiarazione integrativa nella quale era stato dedotto il costo dell’Iva indetraibile a seguito della contestazione (definita in adesione). Avverso il silenzio dell’Ufficio la società ha proposto ricorso, accolto in primo grado. Tuttavia il giudice di seconde cure ha confermato l’operato dell’Ufficio che aveva negato il rimborso.

La società ricorreva in Cassazione lamentando in estrema sintesi l’errore del giudice di appello di escludere la deducibilità dell’Iva versata dalla società al fornitore in ragione della sua indetraibilità, in quanto correlata a operazioni accertate come soggettivamente inesistenti.

La Cassazione ha respinto il ricorso adducendo al riguardo varie argomentazioni. Innanzitutto, i giudici sembrano equiparare l’indetraibilità dell’Iva a una sanzione per l’utilizzo (consapevole) di fatture soggettivamente inesistenti, con la conseguenza che, in generale, le «sanzioni» derivanti da un comportamento illecito non sono deducibili. Sul punto va rilevato che in realtà volendo ritenere l’indetraibilità una sanzione (e in quanto tale indeducibile) si porrebbe un problema ben più importante derivante dal fatto che l’illecito in questione verrebbe sanzionato varie volte: una specifica sanzione amministrativa, la sanzione penale e, appunto, il recupero dell’Iva.

La Cassazione poi ha evidenziato che l’Iva, poiché nella specie afferente a operazioni soggettivamente inesistenti dal carattere fraudolento di cui il contribuente era consapevole, non può configurare un costo di impresa, per il principio di neutralità che caratterizza l’imposta. Secondo la pronuncia, farebbe eccezione il compimento di operazioni promiscue imponibili ed esenti, per le quali il legislatore fissa un criterio di determinazione della parte indetraibile di Iva che, rappresentando un costo collegato a operazioni che producono un ricavo, è deducibile.

Anche sotto questo profilo l’interpretazione della Cassazione non appare condivisibile. Innanzitutto, l’Iva da fatture soggettivamente inesistenti è detratta sulla base di principi giurisprudenziali consolidati, ma, pur effettuando i dovuti distinguo, la situazione è del tutto paragonabile in concreto, all’ordinaria indetraibilità Iva di operazioni che (per legge) non sono ammesse in detrazione, ma sono deducibili secondo il criterio di inerenza). In proposito, peraltro l’inerenza appare implicita atteso che il relativo costo, nella specie, era deducibile: si ricorda, infatti, che la norma prevede la deduzione dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti a condizione che siano inerenti.

Infine un’ultima considerazione: la deduzione dell’Iva dal reddito di impresa porterebbe in genere un risparmio di poco più del 5% dell’Iva, a fronte di un’indetraibilità che, di norma, è del 22%. La deducibilità dell’Iva dal reddito potrebbe favorire (nell’interesse dell’erario) più adesioni. Rappresenterebbe, infatti, una sorta di “incentivo”, in quanto spesso, dell’imposta per operazioni soggettivamente inesistenti, è recuperata nei confronti di contribuenti che scoprono solo dopo indagini dell’Amministrazione, che il proprio fornitore era un evasore. È così paradossalmente percepito che l’Iva venga recuperata (solo) presso il contribuente (solvibile) dimenticandosi che l’emittente (vero evasore), l’Iva l’ha concretamente incassata dal proprio cliente.

È auspicabile un ripensamento di tale orientamento se non addirittura un intervento normativo.