Il fallimento prevedeva la cessazione immediata dell’attività di impresa, salvo che il tribunale avesse autorizzato la prosecuzione dell’impresa dichiarata fallita, qualora vi fosse stata la ragionevole certezza che dall’interruzione dell’attività fossero scaturite conseguenze gravemente dannose per le ragioni dei creditori (articolo 104 della legge fallimentare).
Con il Codice della crisi (spunto sinora poco coltivato nella prassi) la prospettiva si inverte: l’obiettivo di preservare la continuità aziendale può essere perseguito anche una volta che l’impresa veda aprirsi le porte della liquidazione giudiziale. In base all’articolo 211 del Codice, l’apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività di impresa se la sua prosecuzione, autorizzata dal tribunale, non arrechi pregiudizio ai creditori (comma 2) ovvero se il giudice delegato, su proposta del curatore, ne abbia successivamente autorizzato l’esercizio, fissandone la durata (comma 3). Venuto meno il requisito del «grave danno» ai creditori per l’interruzione delle attività di impresa, il tribunale deve verificare caso per caso che, per effetto della prosecuzione, i creditori non vedano compromessa la soddisfazione delle proprie ragioni.
Il Codice della crisi consolida, peraltro, un orientamento manifestatosi in alcune decisioni sotto il regime abrogato (per esempio: decreto del Tribunale di Bergamo del 2 aprile 2022), che, nell’autorizzare il curatore a proseguire l’attività di impresa, già facevano leva sull’opportunità e sulla convenienza della prosecuzione dell’attività nell’interesse dei creditori. Nel caso deciso dal giudici bergamaschi, in particolare, la società – nonostante il forte disequilibrio finanziario, che aveva determinato il venire meno del concordato preventivo omologato per fallimento in proprio – aveva di fatto continuato a commercializzare regolarmente i propri prodotti a prezzi in linea con quelli di mercato, conservando, nonostante il fallimento, uno standard di affidabilità tale da giustificare la continuazione delle attività secondo il piano elaborato dalla curatela.
Già in questo precedente, che ha di fatto anticipato il Codice, “soffiava il vento” della riforma (come avvenuto in altri uffici, come il Tribunale di Bologna), vento a favore della continuità aziendale, in cui la prosecuzione dell’attività di impresa a procedura liquidatoria aperta era volta a consentire che si realizzassero le condizioni per una proficua dismissione dell’azienda, ovvero per un affitto – ponte, che potesse risultare strumentale alla presentazione di una proposta concordataria.
La giurisprudenza sta dimostrando di aver recepito l’attenzione del legislatore per la salvaguardia della prosecuzione dell’attività aziendale tanto da ritenerla ammissibile, nonostante il silenzio della relativa disciplina, anche nella liquidazione controllata.
Paradigmatica la sentenza con cui il Tribunale di Arezzo (24 maggio 2024) ha riconosciuto la possibilità della prosecuzione dell’attività aziendale ritenendo applicabile anche alle imprese minori la disciplina prevista per la liquidazione giudiziale. I giudici hanno chiarito che l’attività di impresa può regolarmente proseguire e che i beni necessari ben possono essere sottratti alla liquidazione quando la continuazione dell’attività risulti di maggiore utilità per i creditori rispetto alla pura e semplice dismissione dell’azienda. La prosecuzione dell’attività rappresenterebbe invero, secondo i giudici aretini, un diritto del debitore – affermazione, in effetti, un po’ forte, atteso che il liquidatore è assimilabile a un trustee nell’interesse della massa – ragion per cui i beni individuati dal liquidatore potrebbero essere utilizzati dall’imprenditore nel corso della procedura concorsuale, nel rispetto dell’interesse del ceto creditorio. Questa decisione si pone in continuità con il precedente del Tribunale di Bologna (sentenza del 21 giugno 2023), secondo cui la liquidazione controllata non può realizzare soltanto un obiettivo esdebitatorio a beneficio del debitore, ma deve mirare soprattutto alla chance di recupero, almeno parziale, per i creditori coinvolti nell’insolvenza del sovraindebitato. In questa prospettiva, l’esercizio provvisorio può trovare cittadinanza anche nella liquidazione controllata, sempre si prospetti idoneo a realizzare un surplus per i creditori rispetto alla liquidazione del patrimonio.
Il rapporto tra la salvaguardia degli organismi produttivi e la tutela dei creditori appare, pertanto, risolto consentendo il ricorso all’esercizio dell’impresa “provvisorio” quale strumento propedeutico alla massimizzazione dell’attivo nell’interesse dei creditori. Conseguentemente, il nuovo corso dell’esercizio dell’impresa come disciplinato nel Codice della crisi predilige, in una prospettiva evolutiva ma non rivoluzionaria rispetto al passato, un ampliamento dell’ambito di operatività dell’istituto, pur senza perdere di vista gli interessi dei creditori.