01.10.2025

Metà dei lavoratori stressati, produttività a rischio

  • Il Sole 24 Ore

Nel 2025 possiamo essere sicuri che la pandemia sia alle spalle per i contagi da Covid e la loro gravità, un po’ meno per il lascito sul piano del disagio psicologico, che va ad aggiungersi a uno stress da lavoro correlato che riguarda la metà dei lavoratori e si è ormai cronicizzato. Come racconta anche l’elevato numero di richieste per il Bonus psicologo che si potrà richiedere attraverso il portale Inps fino a metà novembre. È finalizzato ad avere un contributo nel caso di percorsi psicoterapici dovuti ad ansia, stress, depressione, fragilità psicologica e i numeri molto elevati sembrano un segnale, la punta dell’iceberg della presenza di un malessere molto più presente, anche nel mondo del lavoro. Con tutto quello che ne consegue per la produttività.

Le criticità

Mindwork, la prima società benefit italiana che offre consulenza per il benessere psicologico e servizi di supporto online per le aziende e Bva Doxa hanno appena realizzato la sesta edizione del loro Osservatorio (verrà presentato il 9 ottobre a Milano, ne diamo un’anticipazione) che indaga questi temi e che consente di fare un confronto storico dei risultati che riguardano un campione rappresentativo di mille lavoratori. Il fondatore e ceo, Mario Alessandra cita quattro dati per capire il livello di benessere delle persone al lavoro. Il primo dice che c’è una quota molto elevata di stress: «Il 49%, quindi quasi la metà, dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia, sperimenta elevati livelli di stress lavoro correlato: si tratta di un dato in crescita di 3 punti percentuali rispetto all’anno precedente». Il secondo dato è che più si sale nella gerarchia e più la situazione peggiora, tant’è che tra la classe dirigente lo stress riguarda il 58% degli intervistati.

La GenZ

La Generazione Z risulta la più attenta a condizioni di lavoro sane e significative e questo i direttori delle risorse umane lo sanno bene, come sanno che serve un aumento di attenzione, visto che di qui al 2030 la GenZ sarà un terzo della popolazione lavorativa. Questa generazione dice di avere un livello di benessere elevato nel 36% dei casi, al di sopra della media dei white collar, che si ferma al 26%. La parte restante, stiamo parlando dei due terzi di una generazione destinata a fare la storia delle aziende in futuro, mostra segnali di disagio con cui non è disposta a scendere a patti. Questa, dice Alessandra, è infatti «la generazione di lavoratori più propensa a fermarsi in caso di disagio: quasi la metà degli intervistati (46%) dichiara assenze per malessere emotivo e oltre sei su dieci (61%) hanno lasciato un impiego per tutelare la propria salute psicologica. Sicuramente negli anni c’è stata una rimozione dello stigma sulla salute mentale. C’è quindi una maggiore consapevolezza e apertura nel parlarne. Solo qualche anno fa, alla domanda sei stressato? la gran parte dei lavoratori che lo sono avrebbe risposto di no, oggi invece risponderebbe di sì».

La diffusione del burnout

A completare il quadro c’è il burnout. «Si manifesta in particolare nella sensazione di sfinimento che è diffusa nel 40% del campione e interessa complessivamente oltre sette lavoratori su dieci, il 76%: anche questo è un dato in crescita di due punti percentuali rispetto a un anno fa. I fattori scatenanti più citati sono il sovraccarico di lavoro e, nel caso dei dirigenti, il senso di impotenza legato alla responsabilità del ruolo. Quando il burnout si presenta, porta a una diagnosi nel 28% dei casi. La percentuale è in deciso aumento, lo scorso anno era infatti il 20%». Questo ha anche un impatto sulla presenza al lavoro. I giovani rappresentano la categoria di lavoratori che necessita di più tempo per recuperare: hanno infatti bisogno di 7,6 giorni di assenza in media per iniziare a riprendersi, contro i 6,2 degli impiegati nel complesso e i 7 dei dirigenti.

Il distacco dei leader

Chi ricopre posizioni di comando, però, non sembra avere una piena consapevolezza delle situazioni di disagio dei lavoratori. Dalla ricerca di Mindwork emerge infatti un distacco significativo tra l’autopercezione dei dirigenti e la valutazione che ne danno i loro team. La stragrande maggioranza dei manager (l’84%) ritiene infatti di promuovere un clima di fiducia e ascolto. Per i lavoratori però non è così. Alessandra sottolinea che «solo una quota pari esattamente alla metà, il 42%, riconosce nei propri responsabili la capacità di ascolto e di creare un clima di fiducia». Lo stesso accade quando si parla dei segnali di malessere. Mentre l’81% dei leader ritiene di essere in grado di riconoscerli nel proprio team, ancora una volta la percentuale si dimezza se si considera la percezione dei collaboratori (40%). «Questo divario così significativo spiega le ragioni della difficoltà dei manager nel coinvolgere e motivare il team», interpreta Alessandra. E non è un caso allora che il 33% dei manager indica come principale sfida la capacità di mantenere alta la motivazione delle persone (33%), seguita dalla gestione dei conflitti (15%) e dal mantenimento della coesione di gruppo (15%).

Le relazioni inclusive

Nell’ampio spettro del benessere entra in gioco anche il tema dell’equità e dell’inclusione. Su un tema come le pari opportunità, il 49% degli impiegati percepisce la propria azienda come attenta, con punte del 69% tra i dirigenti. Non si può dire lo stesso però del disagio psicologico di cui si sente libero di parlare solo il 30% del campione, pur essendo questo tema molto importante per la retention delle persone, come dice il 59% del campione e per la loro motivazione e il loro ingaggio come dice una quota analoga (62%).

La prospettiva

I dati in prospettiva raccontano due grandi trend, conclude Alessandra: «Anno dopo anno la salute psicologica si afferma sempre più come un fattore imprescindibile nella vita delle organizzazioni e le nuove generazioni non hanno paura di metterla al centro delle loro scelte professionali. Allo stesso tempo, il burnout resta un tema trasversale su cui molte aziende stanno già investendo attenzione e risorse. Questo dimostra come, per le organizzazioni, investire su benessere, leadership consapevole e inclusione non sia più un plus, ma una condizione necessaria per sostenere la competitività aziendale nel medio e nel lungo termine. La produttività, infatti, non potrà più prescindere dalla qualità delle relazioni umane e dalla capacità di costruire comunità di lavoro coese e inclusive. In un contesto di crescente instabilità economica, sociale e tecnologica quelle che un tempo erano competenze meno rilevanti e trasversali, umane e relazionali oggi hanno un’importanza centrale».