Nel sistema italiano l’allerta scatta troppo tardi. L’assenza di un test di insolvenza tecnica nel Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza (CCII) costringe chi assiste le aziende a guardare oltre i tradizionali indicatori di flussi di cassa. Per commercialisti, revisori e advisor ciò significa che la valutazione della continuità aziendale non può fermarsi al cash flow prospettico: occorre integrare i modelli di analisi con metriche a valore, come quelle proposte dall’Asset Quality Review della Bce, per intercettare tempestivamente la “zona di insolvenza” e mettere in campo interventi credibili prima che i costi di dissesto diventino irreversibili.
Un cambio di prospettiva che arriva a metà. Il Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza (Ccii) segna un passaggio importante nella disciplina delle procedure concorsuali. Il legislatore italiano ha scelto di definire l’insolvenza commerciale come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori tali da dimostrare l’incapacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni”.
Contestualmente, ha circoscritto il concetto di crisi alla “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”.
Un’impostazione chiara, che però ignora il fronte dell’insolvenza tecnica, vale a dire lo squilibrio tra valore di mercato dell’attivo e ammontare dei debiti.
Insolvenza commerciale e insolvenza tecnica. Nel dibattito internazionale convivono due definizioni di insolvenza:
– Insolvenza commerciale (cash flow test) che si verifica quando l’impresa non è più in grado di far fronte, in modo regolare, ai propri debiti man mano che giungono a scadenza. È la nozione accolta dal Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza (Ccii) e recepita dalla direttiva Ue 2019/1023, che guarda a “fatti esteriori di inadempimento”. La prova si fonda quindi su un’analisi dei flussi di cassa prospettici e dell’adeguatezza della liquidità a coprire le obbligazioni nei dodici mesi successivi. Si tratta di un concetto legato alla “fotografia” della tesoreria aziendale;
– Insolvenza tecnica (balance sheet test) che scatta quando il valore di mercato complessivo dell’attivo diventa inferiore al valore nominale delle passività. Non si guarda quindi alla disponibilità immediata di cassa, ma alla capacità dell’impresa di preservare valore economico: l’equity è di fatto “out of the money”. Questa nozione presuppone una valutazione a valori correnti, tipicamente stimata attraverso i flussi di cassa futuri attualizzati, e non si ferma ai dati contabili storici.
La distinzione è tutt’altro che accademica.
L’insolvenza tecnica può manifestarsi anni prima della crisi di liquidità: si pensi a un’impresa con debito “bullet” a lunga scadenza, il cui attivo di mercato sia già inferiore al debito.
Formalmente solvibile sotto il profilo commerciale, l’azienda sta però distruggendo valore e vede crescere progressivamente i costi indiretti di dissesto (sfiducia dei fornitori, perdita di rating, aumento del costo del capitale).
Gli effetti sui costi di dissesto. L’insolvenza tecnica, se non intercettata per tempo, è destinata a trasformarsi – quasi fisiologicamente – in insolvenza commerciale, quando la cassa non è più sufficiente a coprire i debiti in scadenza. Ma prima che il default di cassa diventi palese, l’impresa subisce un’erosione lenta e progressiva del proprio capitale reputazionale e operativo: sono i cosiddetti costi indiretti di dissesto, vera minaccia per la continuità aziendale.
Questi costi si manifestano in diversi modi. Sul fronte commerciale, fornitori e partner iniziano a percepire l’azienda come più rischiosa: pretendono pagamenti anticipati, riducono i tempi di dilazione o addirittura rifiutano nuove forniture. Sul piano finanziario, banche e investitori rivedono in aumento i tassi applicati, restringono gli affidamenti e chiedono garanzie aggiuntive. L’accesso al credito diventa più oneroso e, nei casi più gravi, si chiude del tutto, accelerando la spirale di difficoltà.
Non meno rilevante è l’impatto sul capitale umano: i dipendenti più qualificati e le figure chiave, avvertendo il peggioramento della situazione, cercano opportunità più stabili altrove, riducendo la capacità dell’azienda di reagire. Anche i clienti di lungo periodo, soprattutto in settori B2B ad alta specializzazione, possono iniziare a diversificare i propri fornitori, riducendo i volumi di business e aggravando la crisi. A ciò si aggiungono i costi legali e reputazionali: l’aumento delle controversie con creditori e la possibile diffusione di notizie negative nei mercati o nella stampa di settore riducono ulteriormente il valore percepito dell’impresa.
Questi effetti hanno una dinamica tipicamente esponenziale: più a lungo si resta nella zona di squilibrio, più rapida diventa la perdita di valore e più difficile sarà il recupero.
L’importanza di agire nella “zona di insolvenza”. Per questo motivo è essenziale che il management intervenga nella cosiddetta “zona di insolvenza”, ossia quando il valore di mercato dell’attivo è ancora superiore al debito ma il divario si sta assottigliando. In questa fase intermedia – quando il patrimonio economico è “in equilibrio precario” ma non ancora compromesso – è possibile attivare con credibilità piani di risanamento, ristrutturazioni del passivo, operazioni di ricapitalizzazione o cessioni mirate di asset. Un intervento tempestivo consente di arginare l’escalation dei costi indiretti e di preservare la fiducia delle controparti, rendendo realistico un processo di ristrutturazione che, se rimandato, rischia di trasformarsi in una corsa contro il tempo.
La piattaforma nazionale e il test pratico. Il Ccii introduce una piattaforma telematica con check-list particolareggiata e un test pratico di ragionevole perseguibilità del risanamento.
Il test confronta l’ammontare del debito da ristrutturare con i flussi finanziari liberi prospettici, distinguendo tre soglie di difficoltà:
– rapporto fino a 2: sostenibilità ordinaria, piano d’impresa meno rilevante;
– rapporto fino a 3: sostenibilità legata alla qualità del piano;
– rapporto vicino a 5-6: necessità di soluzioni drastiche, come la cessione dell’azienda.
È uno strumento utile, ma adotta una nozione di squilibrio economico-contabile poco rigorosa, prossima a una crisi già conclamata, e individua le soluzioni in base al livello di debito da ristrutturare più che alla redditività del capitale investito.
Il richiamo della Bce: verso indicatori a valore. La Banca centrale europea, nel manuale dell’Asset Quality Review, propone l’uso di un multiplo basato sul cash flow operativo normalizzato per stimare il valore dell’attivo core.
Il calcolo parte dall’Ebitda normalizzato, depurato delle componenti straordinarie, e sottrae imposte, dividendi essenziali e investimenti di mantenimento, aggiungendo eventuali rettifiche conservative.
Il risultato è un indicatore sintetico della capacità di generare flussi prospettici, da moltiplicare per un coefficiente settoriale per stimare il valore economico dell’impresa. Un approccio che consente di identificare la “zona di insolvenza” anni prima che si manifestino problemi di liquidità.