Qualità, valore, fiducia. In un’economia di trasformazioni profonde, la vera sfida per le imprese non è solo produrre ma costruire significato e identità. È quanto emerso nel corso dell’evento «Competitività e creazione di valore per la crescita. Ruolo e proposte dell’Industria di Marca», promosso da Centromarca in collaborazione con il Corriere della Sera. In un’epoca di grande incertezza, l’impresa assume anche un ruolo sociale. Come sottolineato da Daniele Manca, vicedirettore del Corriere della Sera, «bisogna fare rete, premiare i migliori, rimettere al centro il merito». Così la sfida delle imprese è creare valore per favorire la competitività. In questo contesto, a ottobre Centromarca ha presentato delle proposte legislative focalizzate su tre aree: competitività, innovazione e legalità.
«È stata la prima volta — ha evidenziato Francesco Mutti, presidente Centromarca — in cui si è voluto parlare di filiera all’interno del mondo dei beni di largo consumo perché rappresentiamo una spina dorsale dell’economia del Paese con un impatto rilevante sui cittadini che investono quotidianamente nei prodotti». Come filiera sono state avanzate delle proposte «per recuperare efficienza che passa anche dalla digitalizzazione, oltre al tema della deburocratizzazione del sistema, quindi individuare le aree dove la burocrazia tende a essere un elemento che ostacola invece di generare un efficace controllo di informazioni».Fiducia e valore
L’altro elemento riguarda la capacità di esportare, «quando pensiamo all’alimentare si parla di 55 mila aziende con una dimensione media di 9 dipendenti ma oltre il 50% delle esportazioni viene fatto dallo 0,2%, circa 110 aziende. La nostra capacità di approcciare in modo strutturato i mercati esteri è molto debole». «Ma, secondo Alberto Mattiacci, professore di Marketing e Business Management presso La Sapienza, «per l’industria di marca la grande sfida è recuperare la percezione di valore». Il rapporto con i consumatori, basato soprattutto sulla fiducia, è diventato più complesso. Bisogna quindi cambiare approccio. «Le imprese devono vendere valore. Se abbandoniamo l’idea che la scelta del prodotto è determinata dalla sua tecnicalità e qualità ma da ciò che rappresenta, entriamo nel territorio della marca, cioè del significato». L’industria di marca è un pilastro del sistema economico italiano e lo dimostrano i numeri. Nel 2024 in Italia il fatturato del largo consumo confezionato è stato di 102 miliardi di euro; la quota di spesa per le famiglie italiane è di 134 miliardi di euro, 100 miliardi attribuibili al largo consumo. «Centromarca — ha affermato Laura Cavalli, responsabile Centro Studi Centromarca — associa 193 aziende con oltre 2.600 marchi. Un numero rilevante riguarda gli addetti, le imprese associate occupano 95.000 persone ma l’effetto indotto sull’economia, quindi sull’intera filiera, è di oltre 87 miliardi di valore condiviso e generato. Dal punto di vista occupazionale, per ogni addetto diretto alla produzione corrispondono 7 addetti nell’indotto». Il rapporto degli italiani con la marca è orientato alla fiducia, «dai risultati di un’indagine realizzata con Swg, il 70% dei consumatori dichiara di trovare nell’industria di marca le caratteristiche di valore e innovazione».Scenari geopolitici
Nell’attuale contesto geopolitico ed economico, il compito delle imprese è adattarsi ai nuovi scenari. «Abbiamo un saldo commerciale con l’estero di 115 miliardi di euro l’anno — ha rilevato Gregorio De Felice, head of Research e chief economist Intesa Sanpaolo — una capacità di esportare determinata dal fatto che dal 2008-2010 le imprese si sono posizionate su produzioni di qualità medio-alta, un dato che riguarda in particolare il 50% delle imprese nel settore alimentare».
Per Mauro Lusetti, presidente Conad, «l’introduzione dell’innovazione ha portato a un aumento della produttività e, di conseguenza, a fratture del sistema sociale legate alla perdita di posti di lavoro». La direzione da intraprendere è «un patto nella filiera tra il mondo del lavoro e quello della produzione basato sul rispetto del lavoro delle persone». Per Serena Sileoni, professore in Diritto Costituzionale all’Università Suor Orsola Benincasa e senior fellow presso l’Istituto Bruno Leoni, «non abbiamo più la sete di futuro, a causa anche dalle dinamiche demografiche, bisogna quindi aprirsi alle intelligenze che vengono da altri Paesi».