La lunga battaglia tra Uber e tassisti segna in Italia un altro punto a favore di questi ultimi.
Il Tribunale di Torino, con la sentenza in commento, ha riconosciuto che Uber compie atti di concorrenza sleale ai danni dei radiotaxi convenuti in giudizio a mezzo delle sigle più rappresentative; per l’effetto ha confermato i provvedimenti cautelari già disposti dal medesimo tribunale a maggio e luglio 2015 con cui inibiva al colosso di car sharing l’utilizzo sul territorio italiano della app denominata «UberPop» nonché la prestazione dell’omonimo servizio di trasporto terzi.
Vediamo schematicamente, ma con un taglio un po’ più tecnico di quanto non sia di solito trattato questo argomento, quali sono state le premesse e gli argomenti che sorreggono le conclusioni del giudice.
- Uber svolge un servizio di trasporto pubblico non di linea.
Proprio come i taxi e i NCC, anche il servizio reso da Uber rientra tra i cc.dd. «autoservizi pubblici non di linea» ovvero i servizi regolati dall’art. 1, comma 1, della Legge 21/1992 che «provvedono al trasporto collettivo od individuale di persone, con funzione complementare e integrativa rispetto ai trasporti pubblici di linea ferroviari, automobilistici, marittimi, lacuali ed aerei, e che vengono effettuati, a richiesta dei trasportati o del trasportato, in modo non continuativo o periodico, su itinerari e secondo orari stabiliti di volta in volta».
- Per svolgere un servizio di trasporto pubblico non di linea occorre la licenza.
Per svolgere l’attività di autoservizio pubblico non di linea, la Legge 21/1992 – per evidenti ragioni di sicurezza e di ordine pubblico economico – prevede che il conducente compia una serie di adempimenti e sia in possesso di determinati requisiti, anche di natura soggettiva. Una vera propria matrioska burocratica. Occorre infatti il rilascio di apposita licenza da parte del Comune competente; tale licenza presuppone però la preventiva iscrizione del richiedente in un apposito ruolo provinciale dei conducenti di veicoli adibiti ad autoservizi pubblici non di linea. L’iscrizione, a sua volta, è condizionata all’ottenimento dello specifico certificato di abilitazione professionale rilasciato dall’Ufficio Provinciale della Motorizzazione civile che si ottiene con conseguimento di apposito esame. A ciò, vanno aggiunti gli adempimenti di cui all’art. 116 del Nuovo Codice della Strada per cui per diventare conducenti di taxi si deve in primo luogo ottenere un Certificato di Abilitazione Professionale (il c.d. CAP) rilasciato dal Ministero dei Trasporti. Per ottenere il CAP occorre essere in possesso dei determinati requisiti fisici e psichici nonché essere in possesso di patente di guida dei veicoli delle categorie C, D ed E. Oltre a tutto quanto precede, Regioni e Comuni stabiliscono altri particolari requisiti necessari per l’inserimento nel ruolo e per il rilascio effettivo delle licenze (limiti massimi e minimi di età, residenze particolari, orari di servizio, controlli, ecc.). Infine, sul piano privatistico, tenuto conto dell’utilizzo commerciale delle vetture, il premio delle assicurazioni obbligatorie per la responsabilità civile applicabili ai veicoli adibiti al servizio taxi e NCC hanno costi assai più elevati rispetto a quelle dei veicoli privati ordinari.
- Il servizio di trasporto pubblico è soggetto a tariffe di legge.
La Legge 21/1992 (art. 13) prevede che le tariffe per il trasporto pubblico non di linea siano fissate dalle «competenti autorità amministrative» (il Comune per i taxi e il Ministero dei Trasporti per NCC). Chiunque rispetti la legge, dunque, non può variare i prezzi secondo la regola di mercato della domanda e dell’offerta. Cosa che Uber fa (vedi infra).
- Uber è un concorrente sleale.
Alla luce di tutto quanto precede, Uber è senz’altro un concorrente sleale. Essa infatti svolge un’attività concorrente con le sigle di radiotaxi (vedi § 1). Attività che può qualificarsi come sleale in quanto i driver di Uber si collocano sul mercato senza rispettare la normativa di settore che imporrebbe l’ottenimento della licenza (vedi § 2) e l’applicazione di tariffe determinate con provvedimento amministrativo (punto 3).
L’effetto di ciò è una distorsione competitiva per cui chi non rispetta la legge è soggetto a costi minori e può offrire tariffe più basse spingendo fuori mercato chi la legge la rispetta. Ma c’è di più. Uber, con il sistema denominato «surge pricing» (un algoritmo per determinare i costi di tratta), può alzare le tariffe in caso di aumento della domanda praticamente senza limiti (famosi sono i casi di Sydney e Londra dove, sotto attacco terroristico, i prezzi di Uber arrivarono alle stelle). Ciò penalizza ancor di più i conducenti di taxi e NCC rispetto ai driver Uber. I primi, infatti, conformandosi alla legge e dovendo fornire un servizio pubblico, non possono approfittare mai dell’aumentata domanda.
In definitiva, il sistema di Uber assicura certamente loro un vantaggio a chi ne fa parte (Uber stessa e i suoi driver), ma «poiché questo vantaggio deriva da un risparmio di costi conseguenti al mancato rispetto delle regole di funzionamento del settore, si tratta di un vantaggio che non può che essere qualificato indebito – cioè concorrenzialmente illecito – non potendo gli altri operatori economici competere efficacemente a “parità di armi” se non sottraendosi, a loro, volta, alla legge» (pagina 37 della sentenza).
- Sono tutti responsabili.
Se è pur vero che sono i singoli driver a guidare i veicoli – e che dunque è ad essi riferibile l’illecito amministrativo consistente nell’esercizio abusivo del servizio di trasporto pubblico in assenza della dovuta licenza – è pur vero che è Uber che organizza tutta l’attività, che consegue i maggiori guadagni e che, in ultima analisi, tiene le fila con organizzazione imprenditoriale di tutto il business. È Uber, in pratica, che ha ideato e consente di svolgere il servizio abusivo in parola, con ciò danneggiando gli altri operatori concorrenti operanti sul mercato. Uber, in altre parole, si comporta né più né meno come una qualsiasi compagnia di radiotaxi che con il contributo dei driver costituisce un’unica entità economica che organizza in forma collettiva un servizio di trasporto sfruttando i vantaggi che derivano della violazione di norme pubblicistiche, con la conseguenza che anch’essa viola i principi della correttezza tra imprenditori in misura anche maggiore di quanto possa dirsi per i singoli conducenti abusivi (sul concetto di “unica entità economica” mutuato dalla giurisprudenza comunitaria in materia di antitrust, si rimanda al contributo di prossima pubblicazione su questa rivista).
Tribunale di Torino, 22 marzo 2017, n. 1553 (leggi la sentenza)
Francesco Rampone – f.rampone@lascalaw.com
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