Trattare l’intelligenza artificiale come una questione puramente tecnologica rischia di essere fuorviante perché si impone come una sfida adattiva che arriva fino alla governance, più che come una sfida tecnica: la tecnologia è necessaria ma non è sufficiente. I risultati dipendono infatti dall’adattamento di persone, processi, ruoli e soprattutto governance intorno alla tecnologia. Il cambiamento organizzativo e culturale richiede un apprendimento e un riallineamento continui, ma su questo le organizzazioni non sono così allineate, come mostrano i dati di uno studio realizzato dalla società di consulenza Bip, coinvolgendo i knowledge workers, i lavoratori della conoscenza, di 500 organizzazioni italiane. I risultati sono stati presentati a Venezia alla prima edizione di InSummit, un momento di confronto sulle grandi trasformazioni che stanno ridefinendo il business, la tecnologia e il ruolo dell’essere umano nell’epoca dell’intelligenza artificiale. È emerso che ben oltre sei organizzazioni su dieci tra quelle coinvolte si trova nelle prime fasi di adozione dell’Ai, in cui non c’è ancora una visione strategica condivisa, non ci sono sistemi di governance accurati e un piano di change management che sia in grado di portare pienamente a bordo le persone nel cambiamento. Il dato tutto sommato positivo è la bassa percentuale, 15%, delle organizzazioni di medie-grandi dimensioni che non hanno ancora avviato progetti di “adoption” dell’Ai. È però altrettanto vero che solo il 19% si trova in una fase avanzata di integrazione o differenziazione. Questi aspetti sono percepiti dai lavoratori, tant’è che solo il 25% di loro afferma che la propria azienda possiede una strategia chiara sull’Ai ed il 58% non crede che l’azienda sia pronta a sfruttare le opportunità dell’Ai.
Un laboratorio parallelo
Sembra paradossale, ma è proprio così. Quando si parla di intelligenza artificiale si tratta di mettere insieme parole apparentemente molto distanti tra loro, di passare costantemente dalla sperimentazione alla differenziazione e di guidare l’incertezza con metodo. Questo perché non è possibile lavorare su scenari certi, ma solo su ipotesi, per quanto robuste: l’intelligenza artificiale è un po’ la palestra che abitua tutti a trattare l’incertezza come condizione permanente, traducendola in direzione condivisa, criteri di scelta e responsabilità chiare. Nelle fasi iniziali si sperimentano casi di utilizzo, ma quando l’integrazione cresce, l’Ai smette di essere un laboratorio parallelo ed orienta la strategia con obiettivi chiari, diventando parte del sistema nervoso dell’impresa. Questo consente di farla entrare nei processi, nelle decisioni, nelle metriche e soprattutto nella governance. Il punto non è più se l’Ai funzionerà, questo ormai è chiaro, semmai è come portarla nel cuore della strategia aziendale, tenendo conto che il futuro è in parte umano, in parte macchina e che c’è tra i due mondi tanta condivisione.
Le diverse velocità
A questo scenario però le aziende non sono proprio così pronte e spesso lo sono molto di meno dei loro stessi dipendenti che ormai utilizzano l’Ai nella loro quotidianità. Del resto le grandi corporate americane che hanno portato l’Ai in mezzo a noi hanno scelto la via del Btoc, il business to consumer, e quindi di rivolgersi direttamente al cliente finale. Questo ha creato nelle persone una forte consapevolezza del potenziale dell’Ai, ma anche la capacità di fare valutazioni, che in qualche modo spiega perché un lavoratore su quattro ritiene che la propria azienda non abbia una strategia chiara sull’Ai. Quando si parla di intelligenza artificiale il sentimento è a metà via tra la paura e l’entusiasmo che coesistono e vanno bilanciati in modo dinamico. Troppa paura genera paralisi, troppo entusiasmo potrebbe significare azzardo. Bisogna invece canalizzare tutto dentro confini chiari, tenedo fermo il concetto dello Human-in-the-Loop nei passaggi sensibili e nelle metriche dei processi per restare ancorati alla realtà.
L’approccio dei lavoratori
Tornando ai dati della ricerca il 92% dei professional coinvolti si dice curioso di sperimentare nuove applicazioni di Ai, ed anche le organizzazioni lo percepiscono, seppure in percentuale un po’ minore (87%). La maggior parte (79%) dei lavoratori consiglierebbe l’uso dell’Ai a un collega. Le diffidenze nascono da questioni reali, spesso non indirizzate efficacemente dalle organizzazioni (52% per questioni etiche e bias, 48% cita privacy e sicurezza, il 43% segnala una affidabilità insufficiente ed il 33% parla di mancanza di formazione o supporto). Però solo il 14% dei lavoratori teme la sostituzione lavorativa, così come solo il 18% delle organizzazioni ha percepito resistenze forti o diffuse all’adozione dell’Ai. Le resistenze nella percezione delle organizzazioni sono legate a mancanza di comprensione dei benefici, competenze non adeguate e mancanza di comprensione delle finalità dell’AI che vengono indicate da una quota fra il 60 ed il 75% del campione.
L’evoluzione del leader
La leadership nell’era Ai si sta spostando dal controllo alla responsabilizzazione. Le persone cambiano se accompagnate fuori dalla comfort zone senza panico con sicurezza psicologica, micro-sfide a bassa soglia e rituali ricorrenti. Il leader non è più chi fa tutto da solo, ma chi costruisce fiducia e spazi per gli altri. Cresce l’importanza di sviluppare in modo diffuso una leadership adattiva che coinvolga le persone e le guidi fuori dalla zona di confort. Il cambiamento però necessità di azioni e supporto, ma quello che si fa è ancora poco, tant’è che solo il 5% delle organizzazioni coinvolte nella ricerca sta impostando azioni per favorire un supporto manageriale attivo ai dipendenti nell’adattarsi al cambiamento.
Un nuovo linguaggio
Le persone sono pronte? Il 94% dei professional crede di poter imparare a utilizzare l’Ai, il 37% dei professional si sente privo di un’informazione adeguata e il 44% delle organizzazioni dichiara di non avere ancora lanciato alcun programma di formazione sull’Ai. Certo è che l’intelligenza artificiale ci costringerà a un nuovo linguaggio. Non basta usare l’Ai, ma va appresa la fusione tra capacità umane e algoritmiche. Questo significa ad esempio nuova alfabetizzazione per saper chiedere bene, contestualizzare, riformulare, avere un pensiero critico sull’output con verifica e triangolazione delle fonti, riconoscimento dei bias e uso consapevole dell’Human-in-the-Loop, l’uomo nell’anello. Le aziende vinceranno non solo assumendo data scientist, ma coltivando fusion talent, ossia profili in grado di muoversi con naturalezza tra giudizio umano, dominio tecnico e intelligenza artificiale.