Chi l’avrebbe mai detto? A Genova sono sempre di più quelli che rimpiangono i Riva. Nel 2015, dieci anni fa, sotto la guida della famiglia imprenditoriale che aveva rilevato l’Ilva dallo Stato, lo stabilimento di Genova Cornigliano toccò il suo apice lavorando un milione e 300mila tonnellate d’acciaio proveniente da Taranto. Alla fine di quest’anno saranno poco più di 300mila, leggermente meglio del 2024, ma sempre molto al di sotto delle potenzialità di una fabbrica che nel dopoguerra ha visto nascere la siderurgia moderna in Italia. Ora, di fronte alla prospettiva di bloccare l’invio di coils da Taranto agli impianti del Nord (Cornigliano, Novi Ligure, Racconigi), si apre una pagina nuova che potrebbe addirittura portare a una scissione di quello che è stato l’acciaio pubblico targato Ilva, poi passato ai Riva, sfilato a questi e affidato ai commissari, prima di ricederlo ad ArcelorMittal e far tornare di nuovo i commissari.
Ma davvero si può arrivare alla scissione?
La fornitura di rotoli d’acciaio, l’unica che consente agli stabilimenti del Nord di lavorare, è garantita fino a fine febbraio 2026, poi la produzione potrebbe anche finire sul mercato, lasciando così gli impianti senza più la possibilità di dedicarsi all’attività “a freddo”, la laminazione dei rotoli che consente di trasformare l’acciaio in un’infinità di prodotti con cui tutti quanti conviviamo. Prima di scivolare nell’abisso, Genova e Novi hanno fatto sentire la propria voce, con uno sciopero che nel capoluogo ligure ha fermato per due giorni e una notte la città (con gli operai che hanno scelto di dormire in strada). Ma questo è solo l’inizio perché il progetto che ha cominciato a prendere corpo, spinto dal fronte sindacale e poi allargatosi agli ambienti economici e industriali, prevede appunto l’autonomia da Taranto.
«Non siamo noi che vogliamo rompere il patto fra i lavoratori, ma se Taranto ci lascia noi vogliamo continuare a lavorare l’acciaio» spiega Giulio Troccoli, storico sindacalista della Fiom Cgil genovese che nel 2011 guidò la battaglia di Genova per fermare la chiusura del cantiere navale di Sestri Ponente. Di fronte alla crisi del mercato, Fincantieri aveva ipotizzato la chiusura, ma la protesta degli operai, condivisa dalle istituzioni, dai commercianti e dalla Chiesa, con il cardinale Angelo Bagnasco in fabbrica, indusse il gruppo a un ripensamento, tenendo aperto un cantiere che ora progetta di raddoppiare la sua capacità operativa per costruire navi da crociera fino a 180mila tonnellate di stazza lorda.
Per gli impianti del Nord la prospettiva di vita pare legata all’autonomia da Taranto, da realizzarsi attraverso l’acquisto dei coils dal mercato. Più difficile pensare di farlo con un forno elettrico. Il piano presentato dal ministro delle Imprese Adolfo Urso, infatti, ipotizzava il rilancio dell’ex Ilva attraverso la realizzazione di quattro forni elettrici (con quattro impianti di produzione del pre-ridotto per alimentarli). Uno dei quattro era previsto proprio a Cornigliano, con un investimento stimato in circa due miliardi di euro. Un piano che aveva e ha necessità di confrontarsi con un azionista privato pronto a fare la propria parte. Peccato che al bando per la vendita del gruppo abbiano risposto solo due fondi d’investimento Usa e nessun produttore d’acciaio. L’autonomia degli impianti del Nord sembra possibile in altro
modo, cioè acquistando i rotoli sul mercato. Ne è convinto, fra gli altri, il presidente di Confindustria Genova Fabrizio Ferrari. «Serve definire un nuovo piano industriale, vero, credibile, che si concentri sul Nord, Genova, Novi Ligure — spiega — Un piano che consenta di salvaguardare questi impianti mantenendoli attivi e che esamini e individui come sviluppare questa parte di produzione d’acciaio e dove andare a prendere la materia prima».
Ma insieme all’autonomia, gli imprenditori genovesi spingono per affrontare in via definitiva un tema che da anni si trascina in attesa di una soluzione, quello delle aree. All’atto della firma dell’Accordo di Programma che sancì la chiusura dell’altoforno, nel 2005, si garantì l’occupazione per i 2.200 dipendenti rimasti. Oggi non si arriva a mille su un’area di un milione e centomila metri quadrati. Da qui l’appello alla restituzione di una parte di aree da dedicare ad altre attività produttive che possano creano nuove occasioni di lavoro e impiegare anche addetti della siderurgia. È, questo, il secondo pezzo del piano che potrebbe rendere il Nord autonomo.
«Qualunque piano si decida di avviare — dice Ferrari — deve portare alla liberazione di una parte delle aree non più utilizzate dall’attività siderurgica e messe a disposizione di attività di manifattura e di servizi. Ritengo che questo sia il modo più serio per salvare l’occupazione esistente a Genova, ma anche per sviluppare nuova occupazione. Parlo di manifattura, quindi di altra attività industriale, e di servizi di alto livello, a cominciare dalla logistica. Dobbiamo assolutamente trovare il modo di impiegare più gente rispetto a quella di oggi, la percentuale di occupazione al metro quadro è troppo bassa».
In attesa che il quadro si faccia più chiaro, sul tema torna a fare sentire la propria voce anche la Chiesa, con i vescovi di Genova e di Tortona Marco Tasca e Guido Marini. Di fronte all’ipotesi di non rifornire più gli impianti del Nord i vescovi non usano giri di parole. «Andare in questa direzione pregiudica il futuro e non sembra avere una logica industriale» spiegano in una lettera dopo aver appreso «con grande sorpresa l’ipotesi ventilata dal governo ai sindacati di fermare la produzione nei siti del Nord di Acciaierie d’Italia».
Ipotesi da cancellare senza alcun dubbio, aggiungono i vescovi, attraverso «l’inserimento delle future decisioni in un contesto di piano industriale nazionale credibile. Auspichiamo un impegno collettivo, da parte delle istituzioni e della società civile, per creare valide opportunità occupazionali che offrano stabilità e dignità».