Luci e ombre dell’industria italiana. Uscita più solida dalla selezione naturale della grande crisi, capace negli ultimi anni di assorbire gli shock e conquistare quote di export grazie a varietà e qualità dei suoi prodotti. Ma frenata da vecchi e nuovi limiti – ridotta dimensione delle imprese, bassa tecnologia, costi dell’energia – che non le permettono di ridurre il divario di produttività con gli altri big europei. Limiti che nell’era dell’IA minacciano di pesare ancora di più.
È il quadro che emerge da un’indagine del Centro studi Confindustria sull’evoluzione della manifattura che, dati alla mano, si chiede: “Rimarrà competitiva?”. I numeri generali dicono che l’industria resta un pilastro della nostra economia, seconda in Europa e ottava al mondo per valore aggiunto. Tenuta non banale, nell’era del balzo cinese, frutto di un’evoluzione. Nell’ultimo decennio le micro imprese, meno produttive, sono diminuite del 12%, mentre è
aumentata la dimensione delle più grandi ed efficienti. E tra il 2015 e il 2019 la produttività, storico tallone d’Achille, ha perfino recuperato parte del divario con l’Europa. Il problema è che questa evoluzione è lenta, limitata e dal futuro incerto. La dimensione media delle imprese resta comunque bassa: solo il 42% del valore aggiunto è generato da
grandi aziende, contro il 74% della Francia e il 75% della Germania. Guardando ai settori poi, il 60% del sistema opera in comparti a media e bassa tecnologia (meccanica, metalli, alimentare, tessile), mentre in Francia è il 50% e in Germania il 40%. La crescita di produttività degli ultimi anni si spiega con variazioni interne ai settori, uno spostamento di risorse dai piccoli ai grandi (pure più produttivi dei pari europei), ma non da una redistribuzione verso settori più
avanzati.
Anche gli investimenti riflettono questa tassonomia tradizionale: sui beni materiali, dai macchinari in giù, l’Italia è sopra la media europea, ma insegue sui beni intangibili – ricerca, software, brevetti, capitale manageriale, i motori dell’innovazione globale. Di recente poi il recupero di produttività pare essersi arrestato. In parte per i prezzi dell’energia, che pesano più che all’estero, in parte per un fenomeno di “occupazione senza crescita”, dopo due anni di produzione in calo.
Il bilancio di lungo periodo resta allarmante: in Italia la produttività per ora lavorata è aumentata solo del 26% in trent’anni, un terzo di Francia e Germania, meno della metà della Spagna. Per metterla su un percorso stabile di crescita – dice l’analisi – occorre agire su più leve: «Sostenere l’innovazione delle imprese alla frontiera, promuovere la diffusione delle migliori pratiche gestionali e tecnologiche tra le realtà meno produttive, favorendone la crescita dimensionale, e agevolare lo spostamento si risorse verso imprese e settori a maggiore potenziale».
In un’era in cui ovunque tornano le politiche industriali, sono priorità poco riflesse nella manovra, dove i “nuovi” incentivi guardano alla componente materiale. Ma anche nella retorica di un governo che pare impegnato a difendere vecchi settori in crisi, più che a promuovere la transizione tecnologica. E solo in parte nelle battaglie degli stessi industriali. Ridurre costo dell’energia e lacci europei sono condizioni necessarie, non sufficienti per fare il salto.