10.11.2025

Sostenibilità d’impresa a parole

  • Italia Oggi

Nel 2024, quasi 13.000 aziende quotate, pari al 91% della capitalizzazione di mercato globale, dichiarano di essere sostenibili. Solo due anni prima, nel 2022, erano circa 9.600. In questo breve arco di tempo, la rendicontazione ambientale e sociale è diventata la norma per gran parte del sistema finanziario globale. Ma dietro questa crescita si nasconde un paradosso. Mentre i report Esg si moltiplicano, gli investimenti reali nella transizione ecologica rallentano. Il settore energetico, pur tra i più trasparenti, ne è l’esempio più emblematico: dal 2015, dividendi e riacquisti di azioni sono triplicati, mentre gli investimenti in tecnologie pulite sono aumentati di appena il 5%. La sostenibilità, oggi, rischia di trasformarsi in un’operazione di immagine più che in una scelta industriale strutturale.

È quanto emerge dal Global Corporate Sustainability Report 2025 dell’Ocse, che documenta una crescita importante nella trasparenza aziendale, segnale positivo di un maggiore riconoscimento dell’importanza dei fattori ambientali, sociali e di governance (Esg), ma avverte che il sistema è ancora lontano dalla maturità. La qualità delle informazioni rimane disomogenea, la comparabilità tra aziende e settori è spesso limitata e i dati forniti non sempre permettono di valutare l’efficacia delle strategie nel gestire i rischi legati alla sostenibilità. Si comunica di più, ma non necessariamente meglio.

Le differenze tra settori. Il comparto energetico si distingue per il più alto tasso di disclosure (94% della capitalizzazione di settore), anche perché responsabile da solo del 31% delle emissioni globali totali dichiarate, secondo il report Ocse. All’estremo opposto, il settore immobiliare si attesta al 78%, confermando un gap di trasparenza ancora importante. In questo ambito, la rendicontazione Esg appare meno diffusa e strutturata, nonostante l’impatto potenziale dell’edilizia sull’ambiente. Il livello di dettaglio e l’ampiezza delle informazioni variano anche rispetto al tipo di dati forniti: nel 2024, l’88% delle aziende ha comunicato i dati relativi alle emissioni dirette (scope 1 del Greenhouse Gas Protocol.) e indirette da consumo energetico (scope 2), mentre solo il 76% ha fornito almeno una misura delle emissioni scope 3, ovvero quelle indirette che derivano da attività della catena del valore, come i trasporti dei fornitori o l’uso dei prodotti venduti. Le scope 3 rappresentano la parte più complessa e difficile da calcolare, ma anche quella più determinante per valutare l’effettivo impatto ambientale di un’azienda.

Trasparenza in crescita, ma qualità incerta. Il grado di affidabilità delle informazioni pubblicate dipende anche dalla presenza di verifiche indipendenti. In media, il 42% delle imprese che comunicano dati Esg ha sottoposto queste informazioni a una forma di assurance da parte di soggetti terzi, di revisori indipendenti. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si tratta di forme di “limited assurance” (56%), cioè revisioni che garantiscono un livello di certezza inferiore rispetto alla “reasonable assurance”, adottata solo dal 17% delle aziende. La limited assurance consiste generalmente in controlli documentali o verifiche su un campione limitato di dati, mentre la reasonable assurance prevede procedure più rigorose e sistematiche. A livello globale, oltre la metà delle verifiche viene effettuata da revisori contabili tradizionali. Tuttavia, quando la stessa società svolge sia audit finanziari che Esg, si apre il rischio di conflitti di interesse. Secondo l’Ocse, l’adozione dell’International standard on sustainability assurance (Issa) 5000, da parte di più Paesi, potrebbe contribuire a chiarire le definizioni, armonizzare le pratiche e rafforzare la fiducia nelle informazioni divulgate, rendendo più trasparente anche il ruolo degli attori incaricati di garantire l’affidabilità dei dati.

La varietà degli standard adottati complica ulteriormente il quadro. A livello globale, oltre 6.500 imprese utilizzano gli standard Gri (Global reporting initiative), più di 4.800 si basano sulle raccomandazioni del Tcfd (Task force on climate-related financial disclosures), e circa 3.500 adottano i Sustainability accounting standards board (Sasb). Solo 582 aziende, finora, si sono allineate agli standard Ifrs S1 e S2 elaborati dall’International Sustainability standards board (Issb). In Europa, almeno 1.800 imprese saranno soggette, dal 2025, all’obbligo di adottare gli European sustainability reporting standards (Esrs), nell’ambito della nuova Direttiva europea sulla rendicontazione di sostenibilità (Csrd). La frammentazione normativa, sottolinea l’Ocse, rende difficile confrontare le performance Esg tra aziende attive in Paesi diversi, aumentando i costi di compliance per le imprese multinazionali e riducendo l’utilità comparativa delle informazioni per gli stakeholder e gli investitori.

Gli investitori tra governance e innovazione. Gli investitori istituzionali svolgono un ruolo centrale nel promuovere la sostenibilità aziendale. Tra le 100 società con le maggiori emissioni di gas serra, 35 appartengono al settore energetico. In queste, gli investitori istituzionali detengono una quota di capitale del 36%, seguiti dal settore pubblico con una partecipazione pari al 18%. Allo stesso tempo, tra le 100 aziende con il più alto numero di brevetti verdi depositati (considerati un indicatore importante di innovazione ambientale) la quota detenuta dagli investitori istituzionali raggiunge il 37%, mentre quella del settore pubblico è molto più bassa, pari al 4%. Questo squilibrio nella governance e nei meccanismi di indirizzo strategico suggerisce che il settore pubblico abbia un ruolo più forte nel contenere le emissioni che non nel guidare l’innovazione tecnologica. Il capitale privato, invece, sembra puntare più sulla scommessa tecnologica e sulle prospettive di rendimento legate alla transizione verde.

A livello di governance interna, il 70% delle imprese per capitalizzazione ha coinvolto nel 2024 il consiglio di amministrazione nella supervisione dei temi climatici, in netto aumento rispetto al 53% registrato due anni prima. Questo significa che le strategie ambientali stanno diventando parte integrante delle decisioni strategiche ai massimi livelli.

In parallelo, i comitati del board con mandato esplicito sui rischi di sostenibilità coprono ora circa due terzi della capitalizzazione globale. Anche i meccanismi di incentivazione dei top manager stanno cambiando: nel 2024, il 67% delle aziende con retribuzione variabile per i dirigenti ha introdotto indicatori legati alla sostenibilità, rispetto al 60% del 2022. Tuttavia, in termini di rappresentanza interna e coinvolgimento degli stakeholder, la strada è ancora lunga: solo l’11% delle imprese include rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione e appena il 60% comunica il tasso di turnover del personale. Dati che, secondo l’Ocse, indicano una sottovalutazione della centralità del capitale umano nelle strategie di lungo termine.

La doppia materialità: un cambio di prospettiva. Il primo ciclo di rendicontazione obbligatoria secondo la direttiva Csrd ha fornito ulteriori elementi di analisi. Tra le 42 valutazioni di doppia materialità condotte da aziende del settore energetico ben il 98% ha identificato il cambiamento climatico come un tema materiale sia per l’impatto negativo sull’ambiente, sia come rischio finanziario per l’impresa. La doppia materialità impone di considerare sia gli effetti delle attività aziendali sull’ambiente e sulla società (materialità d’impatto), sia le conseguenze finanziarie che i rischi ambientali e sociali possono avere sull’impresa stessa (materialità finanziaria). Tuttavia, l’Ocse osserva che, per la maggior parte degli altri temi di sostenibilità analizzati, le imprese tendono ad attribuire maggiore rilevanza all’impatto ambientale che al rischio economico correlato. In pratica, riconoscono i propri effetti negativi, ma non sempre li ritengono abbastanza rilevanti da orientare le scelte strategiche. Un segnale chiaro, scrive l’Ocse, che la disclosure da sola non basta: servono incentivi concreti e meccanismi di governance capaci di integrare la sostenibilità nelle priorità industriali.

La sfida della convergenza normativa. Anche sul piano normativo, il report individua margini di miglioramento. L’adozione più ampia dello standard Issa 5000 da parte dei regolatori potrebbe rafforzare la qualità delle verifiche, uniformare la comprensione dei livelli di assurance e aumentare la fiducia degli stakeholder. Allo stesso tempo, garantire l’interoperabilità tra gli standard di reporting, oggi molto diversi tra loro, ridurrebbe i costi per le imprese e migliorerebbe la comparabilità delle informazioni.