05.11.2025

Usa, ondata di licenziamenti: è l’effetto intelligenza artificiale

  • Il Corriere della Sera

Massicci licenziamenti negli uffici di Amazon, UPS, Target (catena Usa di grandi magazzini). Altri gruppi di molti settori (banche come Citigroup e JP Morgan Chase, leader digitali come Meta-Facebook e Salesforce, big del commercio e dell’auto come Walmart e General Motors) avvertono che taglieranno impiegati e manager o, comunque, smetteranno di assumere: per le loro nuove esigenze lavorative basta l’intelligenza artificiale. Negli Stati Uniti il grosso dei licenziamenti di ottobre (128 mila su un totale di 172 mila) ha colpito aziende tecnologiche.

Si stanno avverando le profezie di chi da anni annuncia un’apocalisse per il lavoro intellettuale, i «colletti bianchi», provocato dall’avanzata dell’AI? O sono fenomeni fisiologici di sostituzione? Esuberi di mestieri in via d’estinzione che verranno riassorbiti da nuovi settori creati dall’economia dell’intelligenza computazionale?

Da anni tecnopessimisti e tecnottimisti ci inondano di previsioni di segno opposto. Ancora in questi giorni il capo economista di Google, Fabien Curto Millet, ha sdrammatizzato: la storia insegna che dopo tutte le trasformazioni agricole e industriali, dal vapore all’elettricità, molti lavori sono scomparsi, ma l’occupazione, a lungo andare, è cresciuta. Il Washington Post elenca i mestieri svaniti o ridotti al lumicino: a metà dell’Ottocento l’agricoltura assorbiva oltre metà della forza lavoro, mentre ora, dati ILO, siamo all’1,5%, mentre fabbri, ciabattini e artigiani della scarpa che allora erano quasi a quota 2% oggi sopravvivono con numeri statisticamente irrilevanti. Eppure il mercato del lavoro ha ritrovato un suo equilibrio.

Stuart Russell, un docente di informatica dell’Università di Yale che da anni ammonisce sui rischi di uno sviluppo non governato dell’intelligenza artificiale, nota che i suoi colleghi economisti hanno a lungo sostenuto che, secondo i loro modelli econometrici, la domanda di lavoro sarebbe cresciuta anche nell’era dell’AI. Salvo rendersi conto, a un certo punto, che si trattava di lavoro svolto non dall’uomo ma dalle macchine.

Dario Amodei, all’avanguardia, con la sua Anthropic, nello sviluppo dei modelli di AI, avverte che l’intelligenza delle macchine potrà sostituire metà dei lavori professionali di livello intermedio: traduttori, programmatori, uffici legali, contabili, addetti alla diagnostica medica, giornalisti e molto altro.

Molti capi dei giganti tecnologici condividono questa analisi, ma preferiscono non parlarne: perché pensano che nasceranno nuovi lavori, ma per ora non sanno indicarne nemmeno uno o semplicemente perché non vogliono rischiare interventi correttivi della politica che potrebbero frenare la velocità dell’innovazione.

Ma è proprio l’enorme velocità del cambiamento tecnologico che rende questa crisi del mercato del lavoro diversa da quella della rivoluzione industriale, più lenta e facile da riassorbire, anche perché limitata alla sostituzione del lavoro muscolare. Stavolta tutto cambia molto più rapidamente e il cambiamento non riguarda più solo i muscoli: ha raggiunto il cervello. Di più: con i large language model l’AI, imitandoci e sviluppando doti aggiuntive grazie alla capacità di processare un enorme volume di dati, sta invadendo l’area del linguaggio che è l’essenza della nostra natura, ciò che ci ha fatto emancipare dalle specie animali.

Differenze che dovrebbero suggerire, tanto da parte della politica quanto a livello aziendale, un approccio più ragionato alla gestione di trasformazioni così profonde.

Otto anni fa, intervenendo a un seminario del MIT di Boston, Kai-Fu Lee, scienziato e imprenditore cinese che ha studiato nelle università Usa e ha lavorato a lungo per Google, Apple e Microsoft, sostenne che la Cina avrebbe sopravanzato gli Usa nell’AI. La quale, potendo sostituire l’uomo in moltissime mansioni a tutti i livelli, imponeva un ripensamento del concetto stesso di lavoro da avviare il prima possibile. La platea, composta quasi interamente da accademici, accolse le sue previsioni con una certa ilarità.

Otto anni dopo la rivista tecnologica del MIT spiega perché la Cina sta vincendo la corsa dell’AI. Forse va presa sul serio anche l’altra previsione di Kai-Fu Lee.