Con l’avanzata dell’intelligenza artificiale, le donne rischiano molto più degli uomini di
perdere il posto di lavoro. Anche se le differenze di genere non sono imputabili solo alla nuova
frontiera tecnologica, ma risiedono in primo luogo in convinzioni di tipo culturale.
Uno studio condotto dall’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro, ente che fa capo alle
Nazioni Unite) rivela che tra i Paesi occidentali circa il 10% dei ruoli femminili potrebbe essere
sostituito dall’IA, contro il 3,5% dei ruoli maschili. Inoltre, lo studio segnala che il 41% dei posti
attualmente occupati da donne è in qualche modo esposto all’impatto dell’IA, mentre tra gli
uomini si scende al 26%. Gli stessi analisti avvertono che il declino dell’occupazione non va
dato per scontato. Di certo ci sarà una ridefinizione delle mansioni e una riorganizzazione
delle attività e le fuoriuscite potranno essere limitate se le aziende saranno in grado di
assecondare i cambiamenti del mercato. Tra le professioni più esposte gli impiegati
amministrativi, i contabili, gli addetti inserimento dati, gli operatori di supporto, il
segretariato; attività legate a database, sviluppo web e media; infine, alcuni ruoli finanziari e
contabili.
Il rapporto sottolinea che il livello di rischio dipende da quanto le mansioni sono routinarie,
ripetitive, codificabili: minore è la componente di creatività, giudizio umano, empatia,
coordinamento complesso, più è alta la vulnerabilità occupazionale. L’Italia si trova ad
affrontare questa nuova sfida partendo dalle retrovie. Secondo le analisi della Commissione
europea, nel 2024 il nostro Paese ha registrato il gender employment gap più ampio d’Europa:
19,3 punti di differenza tra uomini e donne, contro una media Ue di dieci punti. Il dato è
migliorato nel ciclo post-pandemico, ma meno della media continentale. Nel rapporto Cnel Istat, intitolato “Il lavoro delle donne tra ostacoli e opportunità”, viene evidenziato che negli
ultimi anni l’occupazione femminile è cresciuta, con la quota di inattivi che ha perso
consistenza, ma il risultato è frutto del traino da parte delle ultracinquantenni, mentre tra le
lavoratrici più giovani e quelle del Mezzogiorno si fatica a vedere segnali consistenti di
miglioramento.
C’è, poi, il tema delle carriere: solo un quinto tra i dirigenti è donna e l’incidenza cala
ulteriormente se si considera la prima linea manageriale. La rappresentanza nei cda ci vede,
invece, come esempio virtuoso in Occidente, ma in questo caso il dato è “forzato” dalla legge
sulle quote rosa. Il nodo non è solo avere un lavoro, ma anche con quali modalità e tutele. In
Italia il part-time riguarda quasi un terzo delle occupate contro meno dell’8% tra gli uomini;
troppo spesso è involontario (mancanza di full-time disponibile), con effetti permanenti su
retribuzioni, contributi e progressioni di carriera. Le indagini Istat quantificano che le donne
con part-time involontario sono tre volte gli uomini; poco più della metà delle occupate ha un
lavoro standard (tempo indeterminato e full-time), contro quasi il 70% tra i maschi. Con la
genitorialità che amplifica i divari.
Francia, Germania e Spagna mostrano tassi di occupazione femminile più alti dell’Italia e gap
di genere più bassi. Allora non resta che agire in primo luogo sulla leva del welfare. Il Pnrr ha
fissato l’obiettivo di 150.480 posti aggiuntivi entro giugno 2026 e il percorso sembra ben
avviato, se si considera che negli ultimi tre anni è cresciuta sensibilmente la disponibilità dei
nidi, tanto che oggi siamo poco sotto la media Ue. La spinta comunitaria può aiutare: in base
alla direttiva nota come “Pay transparency”, entro giugno 2026 tutti gli Stati membri dovranno
assicurare livelli retributivi trasparenti, diritto all’informazione e azioni correttive ove il gap
superi il 5%. È l’occasione per passare dal “monitorare” al correggere davvero i divari. Il resto
richiede politiche economiche lungimiranti: ancora oggi molte donne entrano in settori/ruoli
a bassa produttività, che sono per loro natura meno stabili in una prospettiva di lungo
periodo. Intanto la Commissione europea ha più volte evidenziato la bassa quantità di ragazze
italiane che scelgono percorsi Stem, quelli più legati alle frontiere innovative della tecnologia,
e quindi caratterizzati da un numero maggiore di posti di lavoro ben retribuiti.
In un’analisi pubblicata dal quotidiano francese Le Monde, un gruppo di studiosi sottolinea
l’importanza di rendere il sistema fiscale più favorevole al “secondo percettore di reddito”, che
nella maggior parte dei casi è la donna. In pratica, si tratta di introdurre correttivi che
eliminino gli effetti disincentivanti di tasse e benefici sociali, evitando quelle “trappole fiscali”
che riducono la convenienza a lavorare di più o ad aumentare le ore lavorate.
Agire su più fronti è necessario per affrontare un tema che non si risolve di certo con la
bacchetta magica. L’impegno di tutti gli attori coinvolti è fondamentale non solo per una
questione di giustizia sociale, ma anche perché più occupazione femminile fa salire il Pil e la
produttività. A maggior ragione in un Paese come l’Italia che è tra quelli con la demografia più
sfavorevole. Infine, uno studio della società di consulenza Cloverpop evidenzia che la
diversity, in particolare quella di genere, aiuta le aziende: i team eterogenei, infatti, tendono
ad adottare strategie più efficaci e a gestire meglio i rischi.