Grande anno il 2023 per l’industria italiana. L’ultima indagine «Dati cumulativi» dell’Area studi di Mediobanca, condotta sui bilanci di 1900 società italiane – che rappresentano il 45% del fatturato industriale italiano e il 48% del comparto manifatturiero – evidenziano che la redditività, con un margine Ebit del 6,6%, è ai massimi dal 2008, nonostante il ridimensionamento del 6,8% del giro d’affari.
La dinamica salariale
Una stranezza che si spiega con il calo dei costi d’acquisto (tornati in linea con la media storica all’85% delle vendite), ma anche con la vischiosità dei salari, la cui incidenza sul fatturato complessivo è scesa al 10,1% rispetto all’11,7% della media pre-Covid. Segno che a pagare il conto della pandemia sono stati soprattutto i lavoratori, che hanno perso il 7,6% del potere d’acquisto rispetto al 2021.
Bene per i margini delle aziende, ma male per la domanda interna, la cui debolezza preoccupa, tanto più se i mercati esteri dovessero mantenere una dinamica contrastata. Gli ambiti più penalizzati, con riduzione del potere salariale superiore al 10%, sono stati il cartario (-12,1%), il chimico (-10,3%), gli elettrodomestici (-15,4%), i prodotti per l’edilizia (-10,2%) e la stampa-editoria (-14,1%).
Chi sale e chi scende
Le aziende a proprietà pubblica hanno visto il fatturato scendere del 20,4%, di riflesso al calo delle produzioni energetiche (-29,8%) e petrolifere (-26,4%). Per le aziende private, meno presenti in questi settori, il calo dei ricavi è stato infatti limitato al 2,5%. La manifattura però è lievemente cresciuta (+0,8%, ma -0,9% in termini reali), grazie alle esportazioni (+2,2%) che hanno compensato la debolezza del mercato interno (-0,5%).
Redditività record
Nonostante il generale ripiegamento del fatturato, gli utili sono balzati al massimo del decennio, con un’incidenza sui ricavi del 5,4% rispetto al 3,9% del 2022. Analogamente il ritorno sugli investimenti (Roi) è salito al 9% dal 7,3% dell’anno prima e il ritorno sull’equity (Roe) al 10% dall’8,1%.
Gli investimenti
Gli investimenti materiali, a prezzi costanti, sono aumentati del 4,3% rispetto al 2022. Ma curiosa è la ripartizione tra pubblico – dove gli investimenti hanno registrato un balzo del 19,5% – e privato – dove invece sono diminuiti del 3,1%. Nell’area pubblica la spinta è arrivata dal processo di transizione energetica, mentre altrove è prevalsa la prudenza, giustificata dall’incertezza del contesto e dall’andamento dei tassi d’interesse.
Il controllo estero
Dall’indagine dell’Area studi di Mediobanca emerge che un terzo delle imprese del campione è sotto controllo estero. Poco male se – come si evince dai dati raccolti – queste aziende sono concentrate nelle produzioni ad alta e medio-alta tecnologia, pagano meglio i dipendenti e versano più tasse al Fisco italiano. Nella manifattura, pur pesando per il 33,7% del fatturato, le società a controllo estero rappresentano il 48,8% delle produzioni hi-tech in Italia. Nel made in Italy – dove hanno aumentato il loro peso al 32,2% del giro d’affari complessivo rispetto al 28,5% di vent’anni fa – i loro dipendenti sono meglio retribuiti con un livello medio annuo di 77mila euro rispetto ai 64mila euro degli addetti delle omologhe aziende italiane. Per quanto riguarda il tax rate, calcolando la media 2019-2023, le società a controllo estero pagano un’aliquota del 23,2%, quelle italiane del 20,6%.
Il costo del debito
Se l’industria italiana ha beneficiato del contenimento del costo del lavoro, non così è stato per il costo del denaro, balzato al massimo del decennio: 4,2% ne 2023 contro il 2,6% del 2022. Gli oneri finanziari, quasi raddoppiati per incidenza sul fatturato (dall’1% del 2022 all’1,9% del 2023), si sono mangiati lo scorso anno il 27,7% del margine operativo netto. Un fattore, anche questo, di cui tener conto quando si parla di competitività del sistema-Italia.