Currently browsing spese legali

Spese legali nelle procedure esecutive: se interviene il fallimento devi insinuarti al passivo!

Il Tribunale di Mantova, a risoluzione di una questione controversa sorta in sede di approvazione del progetto di distribuzione in una procedura esecutiva immobiliare incardinata dallo Studio per conto di una società Cliente, ha recentemente assunto il seguente provvedimento:

Ove nella procedura esecutiva immobiliare all’originario creditore procedente sia subentrata la curatela ai sensi dell’art. 216, comma 10, CCI, l’intero ricavato della vendita, dedotte le sole spese sostenute per gli ausiliari del giudice dell’esecuzione, va attribuito alla curatela”.

Preme, però, fornire una doverosa premessa in fatto.

Tutto trae origine dal fatto che, nelle more della procedura esecutiva immobiliare, è stata dichiarata l’apertura della Liquidazione Giudiziale nei confronti della debitrice esecutata, con conseguente e successivo intervento della Curatela nella stessa.

La questione dibattuta nel provvedimento che ci occupa, come detto, è occorsa in sede di approvazione del progetto di distribuzione ex art. 596 c.p.c., nei confronti del quale la Curatela ha formulato le proprie puntuali osservazioni in merito alle ripartizioni proposte dal Professionista Delegato.

Oggetto del contendere sono state le spese legali di rango privilegiato ex art. 2770 e 2777 c.c. sostenute dal creditore procedente e liquidate dal G.E., per le quali, secondo la tesi ex adverso formulata, non avrebbe dovuto in alcun modo prevedersi il pagamento in sede esecutiva. Anzi, in tale sede avrebbero dovuto trovare assegnazione – e quindi soddisfazione – i soli ausiliari del Giudice dell’Esecuzione all’interno della procedura esecutiva (nello specifico, i compensi dell’esperto stimatore, del custode e del delegato in qualità di ausiliari nominati dal G.E.).

Invero, a fondamento della propria tesi, la Curatela della Liquidazione Giudiziale ha citato un precedente in materia – peraltro proprio dello stesso Tribunale di Mantova (cfr. Trib. Mantova, 05.07.2018, Est. De Simone) – con il quale era stato sancito che la procedura concorsuale subentrata nella procedura esecutiva individuale ha diritto di apprendere le somme ricavate dalle vendite coattive al netto delle spese di natura prededucibile e rango privilegiato ex art. 2770 c.c. strumentali all’espropriazione forzata immobiliare e funzionali alla liquidazione dei beni oggetto della procedura da liquidarsi ed assegnarsi in sede esecutiva via meramente provvisoria.

La ratio di tale statuizione è da ritrovarsi in un apparente contrasto con i principi del concorso formale e sostanziale consacrati dagli artt. 150 e 151 C.C.I.I. che determinerebbe, quindi, la non assimilabilità dei compensi legali sostenuti dal creditore procedente a quelli degli ausiliari del Giudice dell’Esecuzione, in quanto solo per quest’ultime è previsto il pagamento in sede esecutiva e dunque fuori dal riparto fallimentare.

Ne deriva che il creditore procedente rimane, dunque, onerato di proporre apposita domanda di insinuazione tardiva relativa a tali crediti pienamente giustificata (anche se ultratardiva) dalla circostanza per cui il fatto costitutivo del proprio diritto, ovverosia la liquidazione in sede esecutiva, sia intervenuta successivamente alla formazione dello stato passivo tempestivo.

In conclusione, il Giudice dell’Esecuzione, in accoglimento delle osservazioni della Curatela, ha ordinato al Professionista Delegato di predisporre un nuovo progetto di distribuzione attribuendo alla Liquidazione Giudiziale anche l’importo di liquidato per spese legali sostenute dall’originario creditore procedente.

Irripetibilità delle spese legali liquidate. La Cassazione conferma!

Il provvedimento di liquidazione delle spese dell’esecuzione implica un accertamento meramente strumentale alla distribuzione o assegnazione stessa, privo di forza esecutiva e di giudicato al di fuori del processo in cui è stato adottato, la conseguenza è che dette spese, quando e nella misura in cui restino insoddisfatte, sono irripetibili.

Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza in commento.

Nel caso in esame l’ Azienda Sanitaria Locale (ASL) ricorreva per due motivi, per la cassazione della sentenza del Tribunale di Salerno che dichiarava inammissibile il primo e rigettava il secondo motivo dell’appello dalla stessa ASL proposto contro la pronuncia del Giudice di pace, che aveva rigettato l’opposizione avverso un Decreto Ingiuntivo, per Euro 85,02 in favore dell’avvocato (difensore distrattario) a titolo di spese legali maturate nel corso di una procedura esecutiva, spese legali rimaste parzialmente insoddisfatte all’esito dell’esecuzione. L’avvocato resisteva con controricorso.
Il primo motivo del ricorso lamentava la “violazione e falsa applicazione dell’art. 339 c.p.c., in relazione all’art. 553 c.p.c., per aver considerato non dedotta l’inosservanza delle norme sul procedimento e/o dei principi regolatori della materia e, per l’effetto, sussistente il diritto del creditore ad agire extra processum per il recupero delle spese legali non incassate per incapienza della massa pignorata“;
il secondo motivo del ricorso denunciava la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1175 c.c., in relazione anche all’art. 151 disp. att. c.p.c., per quanto riguarda la mancata riunione dei giudizi, per non aver riconosciuto la sussistenza del frazionamento giudiziale di un credito unitario“.

La Corte di Cassazione ritenendo la vicenda sovrapponibile a quella della richiamata Sentenza della Cass. 05/10/2018, n. 24571, la quale, accogliendo la censura di violazione o falsa applicazione proprio degli artt. 339 e 553 c.p.c., deduceva la violazione di un principio della materia processuale, prima di decidere nel merito con revoca definitiva del monitorio opposto, sanciva il seguente principio di diritto: “il giudice dell’esecuzione, quando provvede alla distribuzione o assegnazione del ricavato o del pignorato al creditore procedente e ai creditori intervenuti, determinando la parte a ciascuno spettante per capitale, interessi e spese, effettua accertamenti funzionali alla soddisfazione coattiva dei diritti fatti valere nel processo esecutivo e, conseguentemente, il provvedimento di liquidazione delle spese dell’esecuzione, in tal caso ammissibile, implica un accertamento meramente strumentale alla distribuzione o assegnazione stessa, privo di forza esecutiva e di giudicato al di fuori del processo in cui è stato adottato, sicché le suddette spese, quando e nella misura in cui restino insoddisfatte, sono irripetibili“.

La Corte di Cassazione richiamando la consolidata giurisprudenza sopra citata ha, dunque, cassato la sentenza e accolto il primo motivo del ricorso; il secondo motivo è stato assorbito dal primo. Per l’effetto, nel merito, la Corte ha revocato il Decreto Ingiuntivo a suo tempo opposto e ha liquidato le spese secondo il principio della soccombenza.

Cass., Sez. III, Ord., 20 novembre 2020, n. 26429Sara Rovigo – s.rovigo@lascalaw.com

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Processo incardinato, nessuno sconto sulle spese legali

Il valore della controversia si determina in base a quanto richiesto nell’atto introduttivo del giudizio, anche quando il debitore convenuto adempie nelle more del procedimento. Tale principio generale, già affermato dalle Sezioni Unite nel 2007, viene ribadito dalla recente sentenza della Cassazione n. 22462/2019 anche per il caso di riassunzione del giudizio a seguito della mancata comparizione delle parti.

I Supremi Giudici hanno così concluso che il valore del giudizio si determina in base al predetto criterio (cd. criterio del disputatum), persino quando il creditore abbia nell’istanza di riassunzione limitato la sua pretesa al residuo di quanto dovuto dal debitore convenuto dopo il pagamento parziale posto in essere in pendenza di causa; le spese devono, quindi, essere liquidate dal Giudice tenendo conto di quanto indicato nell’atto introduttivo e non di quanto richiesto nell’istanza di riassunzione, sempre se la pretesa creditorea sia ritenuta meritevole di accoglimento in toto.

La Cassazione evidenzia, infatti, come il criterio del disputatum venga meno soltanto in caso di riduzione della somma attribuita che derivi da un riconoscimento soltanto parziale della fondatezza della domanda attorea. Esclusivamente in questa ipotesi il Giudice dovrà determinare il valore della controversia in base “al contenuto effettivo della sua decisione” (cd. criterio del decisum).

Nulla cambia, quindi, se il pagamento è stato eseguito tra la notifica della citazione e la riassunzione del giudizio a seguito della mancata costituzione delle parti, dal momento che in tale ipotesi il giudizio rimane pendente, sia pur in uno stato di quiescenza, estinguendosi soltanto se non riassunto nel termine di tre mesi o se, una volta riassunto, nessuna parte si sia costituita.

In forza di tale principio è stata cassata la sentenza n. 1899/2017 della Corte d’Appello di Roma che aveva sostenuto il legame fra condanna alle spese ed atto di riassunzione del giudizio, sulla scorta di una pretesa avvenuta cancellazione della causa del ruolo, in realtà non sussistente nel caso di mancata comparizione delle parti nei rispettivi termini.

Possiamo quindi concludere che, per tutti i casi di riconoscimento pieno della fondatezza della domanda attorea, ci si potrà aspettare che il valore della controversia e la conseguente condanna alle spese siano correlate alla richiesta attorea originaria, al di là dell’effettuazione di qualsiasi pagamento parziale da parte del debitore convenuto.

A buon conto, ciò potrebbe, in definitiva, portare sia ad un maggior adempimento spontaneo delle richieste creditorie, al fine di evitare alte condanne alle spese processuali, sia a debitori maggiormente restii all’effettuazione di versamenti in pendenza di causa.

Cass., Sez. II Civ., 9 settembre 2019, n. 22462Simone D’Andrea – s.dandrea@lascalaw.com

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Liquidazione delle spese legali: se compensiamo, lo motiviamo

Nel procedimento avanti all’autorità Garante della Privacy, il provvedimento di compensazione delle spese, nel caso ricorrano giustificati motivi, deve trovare adeguata motivazione.

Il principio in commento  trova enunciazione nella sentenza n. 15712/2019 emessa dalla prima sezione civile della Suprema Corte.

Nel caso in esame veniva depositato ricorso presso il Garante della Privacy, il quale successivamente dichiarava il non luogo a procedere e contestualmente compensava le spese di lite tra le parti. In seguito anche il Tribunale, adito avverso la pronuncia di  compensazione delle spese, rigettava il gravame in quanto infondato; l’attore proponeva allora ricorso per Cassazione. La Suprema Corte rigetta anch’essa il ricorso giudicandolo non fondato.

Nell’iter logico che ha portato alla  pronuncia negativa, i giudici svolgono un duplice ragionamento.

In primo luogo si osserva che sulla regolamentazione  delle spese legali innanzi al Garante della Privacy occorre seguire le disposizioni dell’art. 152 del codice del Dlgs 196/2003 anche a seguito delle innovazioni in materia apportate dal regolamento UE 2016/679  in tema di trattamento dei dati personali.

La norma stabiliva che: “ in caso di adesione spontanea […] è dichiarato il non luogo a provvedere, se il ricorrente lo richiede è determinato in misura forfettaria l’ammontare delle spese e dei diritti inerenti il ricorso, posti a carico della controparte o compensati per giusti motivi anche parzialmente”.

In secondo luogo il riferimento all’espressione “giusti motivi”, per essere correttamente intesa, deve prendere le mosse dagli orientamenti sviluppatisi ad opera di dottrina e giurisprudenza intorno all’art. 92 c.p.c.

La giurisprudenza sul punto è arrivata ad affermare che solamente il diniego di compensazione vero e proprio non necessiti di una qualche forma di motivazione da parte  del giudice, il quale resta, invece, onerato di fornire giustificazione  nel caso faccia uso del suo potere di compensazione.

Quest’ultimo punto merita però una specificazione.

Il provvedimento di compensazione non necessiterebbe in definitiva di adottare motivazioni specificatamente rivolte al provvedimento di compensazione con lo scopo di giustificarne l’adozione dovendosi, al contrario, desumersi le ragioni che hanno portato a scegliere la compensazione delle spese tra le parti, dalla motivazione complessiva sottesa alla pronuncia di merito o di rito.

Nel caso in esame, secondo la Cassazione, il ragionamento sotteso alla pronuncia del Garante della Privacy rendeva chiaro il motivo della compensazione delle spese legali, e su tale assunto il ricorso viene respinto.

Cass., Sez. I Civ., 11 giugno 2019, n. 15712Andrea Asnaghi – a.asnaghi@lascalaw.com

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Spese legali e condanna ex art. 96 c.p.c.: ecco la vera sommatoria!

La sommatoria del tasso corrispettivo e di quello moratorio ai fini della verifica della legittimità dei tassi è inammissibile ed è principio ormai granitico in giurisprudenza.

L’ordinanza di rigetto in commento – relativa ad una causa patrocinata dallo Studio – è stata emessa lo scorso 20 aprile all’esito di un ricorso ex art. 702 bis c.p.c. presentato, innanzi al Tribunale di Catania, da una mutuataria che contestava l’applicazione di interessi usurari al contratto di mutuo fondiario sottoscritto nel 2004.

La ricorrente asseriva l’applicazione di un interesse complessivo, ottenuto sommando il tasso corrispettivo ed il tasso moratorio, superiore alla soglia usura ed affermava che tale sommatoria fosse proprio giustificata dalla lettura del contratto di mutuo. Alla prima udienza, peraltro, la mutuataria chiedeva la conversione del rito.

Il giudice adito rigettava la richiesta di controparte ed evidenziava come “la questione della cumulabilità degli interessi moratori a quelli corrispettivi ai fini della verifica dell’usurarietà o meno del contratto di mutuo intercorrente tra l’Istituto di credito ed il cliente è stata esaminata dalla giurisprudenza di merito, la quale in via maggioritaria si è espressa nel senso di vietare tale cumulo”.

Con riferimento al solo tasso di mora, poi, il magistrato sottolineava “che se il superamento del tasso soglia in concreto riguarda solo gli interessi moratori, pattuiti in misura percentualmente maggiore rispetto ai corrispettivi, l’eventuale nullità colpisce unicamente la relativa clausola senza involgere anche l’obbligo di corresponsione degli interessi corrispettivi convenzionalmente fissati al di sotto della soglia” specificando che, per i moratori, la soglia va maggiorata del 2,1% come prescritto dalle Direttive di Banca d’Italia.

Il Tribunale di Catania sembra così aver ribadito la propria posizione circa l’assurda tesi della sommatoria che, nonostante le diverse pronunce di merito, ha purtroppo ripreso piede in seguito alla sibillina ordinanza della Suprema Corte 23192/2017. Ma vi è di più.

Il giudice ritenendo la questione ormai pacifica ha condannato la controparte al pagamento di un’ulteriore somma ai sensi dell’art. 96 c.p.c.

Tribunale di Catania, sentenza del 20 aprile 2018 Valentina Vitali – v.vitali@lascalaw.com

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Spese legali, ti spiego perché non ti liquido

Se ritiene di non dover liquidare integralmente i compensi richiesti dal legale, il Giudice deve indicare specificamente le voci della parcella non provate, che andranno scomputate.

Questo è il principio enunciato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza del 12.01.2018.

La vicenda trae origine dal decreto pronunciato dal Tribunale di Larino, con il quale veniva respinto il reclamo presentato dal legale, avverso il provvedimento con cui il giudice delegato al fallimento liquidava, in misura inferiore alla richiesta, i compensi per l’attività svolta in veste di difensore e procuratore del fallimento.

Avverso il predetto decreto, il legale del fallimento presentava ricorso per Cassazione ex art 111 Cost., dando così spunto alla Suprema Corte per porre un ulteriore paletto al potere discrezionale del giudice nella liquidazione degli onorari dei legali.

Infatti, con l’ordinanza in esame la Cassazione chiarisce che il giudice che intenda espungere delle voci dalla parcella del legale deve indicare esplicitamente quelle che ritiene non provate, non essendo sufficiente un generico riferimento a “voci non comprovate”.

Corollario di tale principio è che il legale è tenuto a provare le competenze maturate delle quali richiede la liquidazione.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità è in linea con gli interventi del Legislatore.

Infatti, la Suprema Corte è intervenuta con una serie di pronunce volte a limitare il potere discrezionale del Giudice nella liquidazione della parcella degli avvocati sancendo che il giudicante deve indicare le ragioni per cui intende diminuire, perché richieste in misura eccessiva, ovvero eliminare del tutto, talune voci della parcella dell’avvocato.

Il Legislatore, invece, è intervenuto in materia introducendo l’istituto dell’equo compenso (Legge 4 dicembre 2017, n. 172) la cui disciplina colpisce con la nullità i casi in cui i compensi del professionista siano determinati in misura sproporzionata, in difetto, rispetto all’attività svolta.

L’orientamento univoco del legislatore e della giurisprudenza di legittimità, che emerge da quanto esposto, è quello di tutelare il diritto del legale a percepire un compenso adeguato all’attività professionale svolta.

Cass., Sez. I Civ., 12 gennaio 2018, ordinanza n. 667Arianna Corsaro – a.corsaro@lascalaw.com

© RIPRODUZIONE RISERVATA