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È legittima la clausola statutaria che preveda la gratuità della funzione di amministratore di una società, quando nello statuto è espressamente stabilito che la remunerazione sia eventuale e subordinata alla determinazione dei soci al momento della nomina dell’amministratore.
Il principio è stato espresso dal Tribunale di Napoli, con la sentenza n. 8003 del 3 agosto 2023, che rigettava le domande formulate dall’attore, volte ad ottenere il riconoscimento del suo diritto a percepire un compenso per l’attività svolta a favore della S.r.l. convenuta, dapprima come amministratore unico e successivamente come amministratore delegato della stessa.
Il Tribunale riconosceva, innanzitutto, il principio, consolidato in giurisprudenza, secondo cui l’amministratore di una società di capitali acquista con l’accettazione della carica il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli, sia nelle s.p.a. sia nelle s.r.l., poiché si presuppone l’attività sia svolta in virtù di un contratto oneroso; in tal caso, il diritto a percepire un compenso non sarebbe necessariamente “subordinato a una richiesta dell’amministratore alla società amministrata durante lo svolgimento del relativo incarico”.
Tuttavia, in merito al suddetto diritto al compenso dell’amministratore, il Tribunale precisava che “trattandosi di un diritto disponibile deve ritenersi legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni di compenso degli amministratori” nella misura in cuisia prevista come “meramente eventuale la remunerazione degli organi gestori”.
In altri termini, è possibile che lo statuto preveda come meramente eventuale “l’attribuzione di indennità” in favore dell’amministratore e, dunque, il suo diritto a percepire un compenso per l’attività svolta; in presenza di una simile previsione statutaria, laddove manchi una delibera dell’assemblea dei soci che attribuisca all’amministratore il diritto di percepire un compenso per l’attività svolta, detto amministratore non avrà diritto a percepire alcunché per l’espletamento dell’incarico, senza che possa trovare applicazione l’art. 36 Cost., concernente il diritto del lavoratore a percepire una retribuzione proporzionata e sufficiente alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Alla luce di ciò, il Tribunale rilevava che nel caso in esame non risultava dovuto alcun compenso all’amministratore, poiché lo statuto della società convenuta prevedeva espressamente la “possibilità” per l’assemblea di statuire un compenso mediante l’adozione di una delibera; delibera che, evidentemente, mancava.
È annullabile il contratto concluso dall’amministratore di una società di capitali con sé stesso, in conflitto di interessi, qualora il contratto non abbia alcuna utilità per la società.
Il principio è stato espresso anche dal Tribunale di Firenze, con la sentenza n. 1256, del 26 aprile 2023, pronunciata a definizione di un giudizio avviato da una società nei confronti del suo ex amministratore unico, accusato di aver compiuto innumerevoli atti di mala gestio, durante il periodo di vigenza del suo mandato.
Tra le varie contestazioni che venivano mosse all’amministratore convenuto, la più rilevante è quella inerente un prestito che il convenuto si era fatto erogare dalla società, attuando, pertanto, un comportamento che costituisce un lampante esempio di contratto concluso da un amministratore in conflitto di interessi, con sé stesso, e, come tale, annullabile.
In particolare, un amministratore viene a trovarsi in “conflitto di interessi” quando è portatore di un interesse estraneo alla società, tale per cui detto amministratore possa trarre una specifica utilità dall’operazione che intende effettuare per conto della società.
Al verificarsi di tale circostanza, l’art. 2391 c.c. prevede uno specifico obbligo in capo all’amministratore di informare il consiglio di amministrazione della società – o l’assemblea dei soci, laddove, come nel caso in esame, sia stato nominato solo un amministratore unico – dell’esistenza di un qualche interesse personale in una determinata operazione, a prescindere dal fatto che detto interesse sia (o non sia) in contrasto con quello della società. In difetto, le operazioni deliberate dall’amministratore saranno impugnabili.
Nel caso in commento, sulla base delle prove documentali fornite dalla società attrice, il Tribunale annullava il contratto che l’ex amministratore aveva “stipulato con sé stesso”, poiché “in conflitto di interessi e senza alcuna utilità” per la società. Inoltre, in ragione di ciò, il Tribunale precisava che “all’annullamento segue, ordinariamente, un obbligo restitutorio” in capo all’amministratore, che veniva, dunque, condannato alla restituzione della somma “mutuata”.
L’amministratore unico che cessa dalla carica per dimissioni volontarie o per scadenza del termine del suo mandato rimane in carica sino a quando non viene sostituito dal nuovo amministratore che accetti tale carica, così da consentire il normale funzionamento della società.
Il principio è stato ribadito dal Tribunale di Catanzaro, con un’ordinanza emessa il 24 maggio 2023, con la quale si è pronunciato, tra l’altro, sull’efficacia delle dimissioni rassegnate dall’amministratore unico.
Secondo il Tribunale, le dimissioni erano da considerarsi inefficaci, poiché non ne era stata dimostrata in giudizio l’effettiva sostituzione a seguito della sua rinuncia all’incarico.
In particolare, l’amministratore unico doveva ritenersi ancora in carica, in forza di quanto previsto dall’istituto della prorogatio imperii di cui all’art. 2385 c.c., ai sensi del quale la rinuncia all’incarico da parte dell’amministratore ha “effetto immediato, se rimane in carica la maggioranza del consiglio di amministrazione” o, in caso contrario, dal momento in cui tale maggioranza venga ricostituita in seguito all’accettazione dei nuovi amministratori.
Nel caso in cui, quindi, una società sia amministrata da un amministratore unico – come nel caso concreto – questi rimane in carica anche successivamente alla scadenza del mandato o alle intervenute dimissioni, fintantoché la società non provveda alla sua sostituzione con un nuovo amministratore e questi accetti l’incarico.
Il Tribunale – dato che la predetta disposizione, seppur dettata per le s.p.a., è ritenuta applicabile analogicamente, sia per la dottrina sia per la giurisprudenza, anche alle s.r.l. – rilevava che, in generale, “le dimissioni comunicate … non sono idonee a provare lo scioglimento del rapporto fra l’amministratore unico e la società”, ove non sia provato che la società abbia provveduto alla nomina di un nuovo amministratore e tale avvicendamento sia stato poi iscritto nel Registro delle Imprese.
Nel caso in cui l’amministratore di una società a responsabilità limitata sia stato nominato a tempo indeterminato, la sua revoca deliberata dall’assemblea dei soci determina, in assenza di una giusta causa o di un congruo preavviso, il diritto dell’amministratore revocato al risarcimento del danno subito.
Il principio è stato ribadito dal Tribunale di Napoli nella sentenza n. 2496 dell’8 marzo 2023, nella quale è stata accolta la domanda proposta da un ex amministratore di una s.r.l. di accertamento dell’illegittimità della revoca dall’incarico di componente del consiglio di amministrazione a tempo indeterminato per assenza del preavviso e di una giusta causa e, dunque, il risarcimento del danno subito.
Gli amministratori di s.r.l., diversamente da quelli di s.p.a., possono essere nominati anche per un periodo superiore al triennio e/o a tempo indeterminato, in ragione del fatto che l’art. 2475 c.c., seppur rinviando espressamente alla disciplina dettata per le s.p.a., non richiama i commi 2° e 3° dell’art. 2383 c.c. che prevedono la durata dell’incarico limitata a 3 anni (pur prevendendo la rieleggibilità). Tuttavia, come correttamente rilevato dal Tribunale di Napoli, la nomina a tempo indeterminato non incide sul potere dell’assemblea di revocare gli amministratori, non potendo essere imposti vincoli perpetui ad un rapporto a titolo oneroso.
Sul punto, il Tribunale di Napoli ha precisato che in virtù “del rapporto fiduciario che vincola gli organi gestori alla società, l’affidamento dell’incarico a tempo indefinito in alcun modo determina lo svuotamento del potere dell’assemblea che, così come conferisce inizialmente l’incarico, può pur procedere a revocarlo, finanche in assenza di giusta causa e/o di preavviso e senza che, per ciò solo, la delibera determinante la cessazione del rapporto gestorio possa considerarsi viziata”.
In caso di amministratore nominato a tempo indeterminato, come nel caso esaminato dal Tribunale di Napoli, in giurisprudenza è unanimemente affermato che, qualora ciò avvenga senza giusta causa, si applichi l’art. 1725, 2° comma, c.c. dettato in tema di mandato,; pertanto, in assenza di giusta causa e di congruo preavviso il diritto del soggetto revocato al risarcimento del danno subito andrà parametrato “al compenso che l’amministratore revocato avrebbe goduto per l’esercizio dell’attività gestoria nel termine di preavviso”. Per contro, la presenza di una giusta causa escluderebbe “l’operatività della disciplina risarcitoria ed indennitaria” prevista a favore dell’amministratore revocato ai sensi dell’art. 1725 c.c.”.
A tale riguardo, il Tribunale di Napoli ha oltremodo chiarito che “le ragioni che integrano la giusta causa di revoca devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare senza che sia possibile una successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori” e, in caso di instaurazione di un giudizio, “spetta alla società l’onere di dimostrare la sussistenza di una giusta causa di revoca, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie”. Ai fini della valutazione in ordine alla ricorrenza di giusta causa “acquistano rilevanza tutte le circostanze sopravvenute che non si risolvano nel mero dissenso verso l’operato dell’amministratore ma siano idonee a minare il pactum fiduciae alla base della nomina”.
Inoltre, chiamato a valutare la congruità del preavviso con il quale era stata comunicata la revoca all’amministratore, il Tribunale ha affermato che si debba “considerare l’elemento della congruità del preavviso sulla base del tempo ragionevolmente necessario a permettere al revocato di trovare un incarico equivalente”.
Alla luce di ciò, nonostante lo statuto della società convenuta prevedesse espressamente la facoltà per la stessa di revocare “in ogni momento” ed anche in assenza di motivazioni e giusta causa gli amministratori, il Tribunale ha ritenuto che “non per questo può intendersi escluso il diritto al preavviso e all’indennità spettante in caso di omissione, dovendosi pur contemperare la facoltà dell’assemblea dei soci di revoca, finanche ad nutum, dell’organo gestorio e la legittima aspettativa dell’amministratore nominato a tempo indeterminato di proseguire nel rapporto (e percepirne i compensi)”.
La domanda risarcitoria ex art. 2395 c.c., proposta dal promissario acquirente di un bene immobile di proprietà di una società capitali, nei confronti dell’amministratore della medesima società promittente, è devoluta alla competenza della sezione specializzata in materia di impresa. Ciò in quanto tra le cause e i procedimenti relativi ai “rapporti societari” contemplati dal D. Lgs. n. 168 del 2003, art. 3, comma 2, lett. a), rientrano le controversie risarcitorie introdotte da chiunque abbia patito un danno derivante da un atto compiuto dall’amministratore nell’ambito dell’attività gestoria che lo lega all’ente.
È questo il principio di diritto affermato dalla III Sezione Civile della Cassazione, in una recentissima ordinanza depositata il 31 maggio scorso.
Nel caso di specie era accaduto che un promissario acquirente avesse stipulato due preliminari di compravendita immobiliari con una società di capitali, rappresentata dai suoi amministratori i quali, all’atto della stipula, avevano omesso di informarlo sullo stato di decozione in cui versava la società, al mero fine di incamerare la caparra confirmatoria convenuta e nella consapevolezza che non si sarebbe mai addivenuti alla conclusione del contratto definitivo.
Verificatosi l’inadempimento, il promissario acquirente aveva dunque preteso dalla società il versamento del doppio della caparra.
Una richiesta risultata vana posto che, nelle more, era altresì intervenuto il fallimento della venditrice.
Tali fatti avevano spinto l’acquirente deluso a convenire in un giudizio risarcitorio, ex art. 2395 c.c., gli amministratori della società fallita al fine di ottenere – previa declaratoria della responsabilità di questi ultimi – il risarcimento dei danni subiti.
Nel costituirsi in giudizio, i convenuti avevano eccepito l’incompetenza delle Sezioni specializzate in materia di impresa, sul presupposto che la controversia non rientrasse tra quelle devolute, ratione materiae, alla competenza delle stesse.
Accogliendo l’eccezione proposta, la Sezione specializzata del Tribunale interpellato aveva declinato la propria competenza in favore di un altro Tribunale, ritenuto competente secondo le regole ordinarie.
Ciò sul rilievo che, per rientrare nella sfera di competenza della sezione specializzata in materia di imprese, la controversia avrebbe dovuto essere direttamente inerente alla “questione societaria” e all'”esercizio dei diritti scaturenti dalla titolarità di partecipazioni sociali”.
Inerenza che difetterebbe nel caso di un’azione risarcitoria di natura extracontrattuale diretta alla riparazione di un danno integrante la conseguenza immediata e diretta della condotta colposa dell’amministratore.
Una tesi, quest’ultima, non condivisa dalla Suprema Corte chiamata a pronunciarsi sul regolamento di competenza promosso dal promissario acquirente.
Invero, secondo la Cassazione, nell’ambito dell’ampia nozione di “rapporti societari” delineata dall’art. 3 del D. Lgs. n. 168 del 27 giugno 2003 comma II lettera a) rientrano, senza ombra di dubbio, anche le controversie risarcitorie introdotte da chiunque (e dunque non solo da parte della società o di singoli soci, ma anche da parte di terzi) nei confronti degli amministratori, sulla base di atti dannosi ad essi imputati, sempre che si tratti, ovviamente, di atti posti in essere nell’esercizio dell’attività gestoria dell’ente, che trovano fondamento nel rapporto organico.
Sfuggono, invece, alla competenza delle Sezioni specializzate le controversie risarcitorie introdotte sulla base di fatti o atti dannosi posti in essere dall’amministratore non come organo della società ma come distinta persona fisica, in sede di amministrazione del proprio patrimonio o nella vita di relazione.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, la Cassazione ha invitato le parti a riassumere la causa dinanzi al Tribunale inizialmente adito.