24.08.2020

Welfare, smart working e formazione I nuovi diritti nei futuri contratti

  • La Repubblica

ROMA — È l’inflazione ferma, prima ancora delle ricadute economiche della pandemia, a rendere in molti casi difficili – se non impossibili – gli aumenti salariali che da sempre caratterizzano i rinnovi contrattuali. La pandemia d’altra parte ha accentuato le differenze tra chi ha potuto avvalersi dello smart working o non si è fermato perché “essenziale” e chi invece si è trovato nell’impossibilità di continuare la produzione. E così a settembre ai tavoli della contrattazione si parlerà soprattutto di vantaggi economici legati alla produttività e di welfare aziendale (istituti preferiti dalle azienda perché godono di una fiscalità di vantaggio), di regolazione dello smart working e del diritto alla formazione. E anche di aumenti salariali, certo, ma solo valutando la situazione e le prospettive economiche del settore o, meglio ancora, dell’area geografica o addirittura della specifica azienda. «I lavoratori si lamentano per i troppi contratti scaduti – rileva Pietro Garibaldi, direttore del Collegio Carlo Alberto – ma per le imprese in un momento come questo è difficile sedersi a un tavolo con un’orizzonte di medio-lungo periodo. Con il decreto di agosto, che prevede la decontribuzione del 30% per le assunzioni nel Mezzogiorno, il governo volente o nolente ha suggerito la strada del decentramento della contrattazione territoriale e aziendale». Stabilire delle condizioni contrattuali diverse per una parte del Paese, cioè, ragiona l’economista, apre la strada quasi per legge a una contrattazione differenziata.
Del resto, calare i contratti in realtà decentrate permette anche di venire incontro ai lavoratori sotto altri aspetti importanti: «I contratti possono fare molto per dare alle famiglie sostegni economici e aiuti per la conciliazione vita privata-lavoro. – rileva il presidente del Cnel Tiziano Treu – Si tratta di un filone avviato da tempo, ma che con il Covid deve tenere conto di una quantità accresciuta di esigenze». E solo in un’ottica decentrata è possibile pensare a una regolamentazione dello smart working, divenuto cruciale con la pandemia: «Finora è stato un po’ improvvisato e anche forzato – dice Treu – ma in prospettiva deve diventare uno strumento nuovo di lavoro anche per dare autonomia ai lavoratori e valorizzarne le capacità. Soprattutto, un’azienda che lavora metà da remoto e metà in modo tradizionale è un’azienda diversa da quella che conosciamo, e va riorganizzata completamente». E non solo: «È il momento di ragionare al di fuori degli schemi consueti sull’orario di lavoro. – afferma Maurizio Del Conte, professore di diritto del Lavoro alla Bocconi – Da un lato bisogna evitare che si lavori 24 ore al giorno, e quindi va regolato il diritto di disconnesione. Dall’altro l’orario di lavoro non può essere più l’unico parametro della retribuzione».
Altro pilastro importante dei nuovi contratti sarà il diritto alla formazione, fondamentale per evitare che le competenze digitali, divenute indispensabili in particolare con lo smart working, rendano obsoleti i lavoratori più anziani. Un diritto che però non va condizionato alle esigenze delle aziende, suggerisce Del Conte: «Deve garantire la spendibilità del lavoratore anche in funzione di una ricollocazione, se dovesse perdere il lavoro. Il suo posto è nei contratti nazionali».