02.12.2024

Transizione verde, il 68% delle aziende italiane ha obiettivi concreti

  • Il Sole 24 Ore

Tradurre la consapevolezza in azione e trasformare le difficoltà poste dalla transizione verde in opportunità e crescita. È la partita non semplice che le aziende stanno giocando, necessaria per non rimanere indietro in un contesto globale dove il percorso di decarbonizzazione è tracciato. Ma le imprese italiane sembrano più brave a farlo rispetto alla media mondiale.

Secondo l’ultimo EY Global Climate Action Barometer 2024 – alla sua sesta edizione e basato su un campione di oltre 1.400 aziende in 51 Paesi – il 41% delle aziende a livello globale mette in atto piani d’azione e impegni finanziari per affrontare i rischi legati ai cambiamenti climatici (erano il 53% nel 2023, però si rileva un +70% dalla prima edizione del rapporto), ma l’Italia è oltre il 50 per cento. Una flessione del dato globale che – in base alle considerazioni emerse nel rapporto – riflette in parte le difficoltà ancora presenti per le aziende nell’identificare e implementare piani di transizione più dettagliati, coerenti ed esaustivi rispetto al passato, dovendosi confrontare con un momento di cambiamenti normativi in arrivo e incertezze economico-geopolitiche. Un “meno, ma meglio”, che si evidenzia nel dato legato all’analisi degli scenari per valutare i rischi climatici, utilizzando dati sia quantitativi sia qualitativi: il 67% delle aziende globali li porta avanti, rispetto al 58% dell’anno scorso.

Se l’Europa è leader mondiale nell’implementazione dei piani di transizione (59%), l’Italia è nella parte alta della classifica dei singoli Paesi, guidata dal Regno Unito (66%). «Le aziende italiane hanno un approccio più maturo: quasi il 68% delle realtà, rispetto al 47% del campione mondiale, ha specificato azioni quantitative, con target numerici, relativamente all’analisi degli scenari delle emissioni – rileva Marco Duso, EY Italy and Emeia Sustainability Leader – e inoltre, se solo il 36% delle aziende globali ha fatto riferimento all’impatto finanziario legato al clima nei bilanci, in Italia la percentuale sale a oltre il 70 per cento». Anche per quanto riguarda la qualità delle informazioni diffuse – in miglioramento a livello mondiale (54%, era il 50% nel 2023), l’Italia è al 62%, sopra la media europea (61%). Il podio va a Regno Unito (69%), Corea del Sud (62%) e Giappone, a parimerito con l’Europa. Solo il 32% delle aziende statunitensi ha dichiarato i propri piani di transizione e il 29% di quelle in Medio Oriente – «anche se si segnala uno slancio dopo Cop28, che è uno dei meriti di organizzare le conferenze sul clima fuori dalle consuete sedi», rileva Duso. In fondo alla classifica la Cina, in cui il tasso di adozione dei piani di transizione è dell’8 per cento.

Le opportunità

Per le aziende italiane sembra chiaro che la transizione verde non presenti solo rischi: l’85% del campione nazionale dichiara di lavorare per identificare e sfruttare le nuove opportunità di mercato che questa può aprire, rispetto al 74% a livello globale, in particolare nell’ambito di prodotti e servizi (73%), di efficientamento delle risorse (44%) e di risorse energetiche (32%). «L’Europa e l’Italia hanno tutti gli ingredienti per essere competitive nelle tecnologie legate alla transizione verde – commenta Duso – perché sono forti sul climate tech, hanno il talento e le università giuste per svilupparlo, hanno gli asset industriali e molte aziende di successo nell’ambito energetico, industriale e agritech». Se la prima fase del green deal europeo è stata molto regolatoria – «la prossima dovrà essere orientata a fornire strumenti di competitività alle aziende», conclude Duso.

Il contesto globale

Secondo Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), l’Europa e le sue imprese dovrebbero guardare con grande interesse all’Africa, «il continente che avrà la massima crescita economica nei prossimi decenni ed enormi problemi di accesso alle tecnologie per la transizione ecologica e digitale. L’Europa ha un interesse strategico nel fatto che si sviluppi in modo sostenibile, anche in un’ottica di minimizzazione delle migrazioni sul continente europeo». Per questo ASviS ha suggerito una sorta di Next Generation Eu per l’Africa: «L’idea di fare debito comune per una priorità condivisa, che non è concettualmente diversa dalle spese per la difesa (su cui vari gruppi politici europei sembrerebbero d’accordo) e ha invece la positività di uno sviluppo sostenibile e anche della creazione di opportunità per la vendita di tecnologie verdi sviluppate dalle nostre aziende, a noi sembra molto opportuna. Certo, ci vuole lungimiranza, e anche coraggio».

Tornando a guardare in casa, come stimolare e supportare le imprese italiane nella transizione? «Cambiando la narrativa, che continua a passare messaggi di attendismo. Per esempio, la legge di bilancio in discussione fa riferimento al 2025-2027, quindi al post Pnrr, ma non finanzia interventi per l’attuazione di regolamenti e direttive europee già approvate (case green, industry net-zero, rigenerazione della natura) che sono opportunità di business e di creazione di occupazione». C’è poi – conclude Giovannini – una grande contraddizione nella legge di bilancio: «Gli aiuti al settore turistico sono condizionati dal fatto che le imprese vadano verso la transizione ecologica e digitale. Perché non applicare il medesimo criterio agli altri settori? Sarebbe stato un segnale importante anche per orientare la finanza privata nella stessa direzione».