La questione di fondo è un “ambiente” che tende comunque a premiare la scelta di restare fuori dalla Borsa. C’è il problema di una «stratificazione nel tempo di norme di varia natura», quando invece «le regole dovrebbero avere la finalità di spingere gli imprenditori a cercare la trasparenza e a sottoporsi allo scrutinio del mercato, nella consapevolezza che si tratta di una scelta premiante, come dimostrato da molti casi di successo». Alcune proposte Consob, mirate a dare una risposta in questo senso, sono state recepite nel decreto competitività del Governo: l’introduzione del voto multiplo sulle azioni, la scelta di diverse soglie d’Opa inseribili nello statuto, le modifiche agli obblighi di comunicazione delle partecipazioni rilevanti (ora la soglia potrebbe passare dal 2% al 3%, restando al 5% per le pmi), le agevolazioni fiscali per le quotande.
Ma ancora non basta. L’Authority punta il dito per esempio sul «sistema complesso e costoso dei controlli interni», «senza la possibilità di graduare la struttura organizzativa in funzione delle dimensioni dell’impresa», e senza che questo significhi necessariamente maggiori garanzie nella prevenzione di illeciti. Vegas elenca altri temi che meritano una riflessione: l’applicazione dei principi contabili internazionali alle quotate, una miglior definizione delle governance monistica e dualistica che oggi trovano scarsa applicazione, un ripensamento del ruolo del consiglio di amministrazione per evitare di concentrare in capo al board «le funzione di alta amministrazione, supervisione strategica e gestione operativa, e buona parte dei controlli, senza ripartire in modo chiaro e articolato tali funzioni tra le sue diverse componenti».
Bene, ma quando la tavola è apparecchiata, poi occorre che qualcuno ci si sieda. «Solo un mercato che veda al suo interno un maggior equilibrio fra banca e finanza può assolvere appieno il ruolo di motore di sviluppo di un sistema economico avanzato», ha avvertito Vegas. E poichè in Italia i prestiti bancari alle imprese non finanziarie pesano ancora per il 52% del Pil (45% nell’eurozona) contro il 4% degli Usa, la « risposta al problema del finanziamento delle imprese non può essere che quella di adoperarsi per realizzare un mercato più simile al modello americano».
Una risposta che per essere convincente dovrebbe essere continentale. Si è fatta l’unione bancaria, ora è il momento di fare il mercato unico dei capitali: il 2015 potrebbe essere effettivamente l’«anno della svolta». Oggi, sostiene Vegas, l’Europa si presenta come un’area «poco attraente per gli investitori di altri continenti». E in particolare in Italia, gli investimenti extracomunitari sono mirati all’acquisizione del controllo, mentre è scarso l’interesse a investimenti di natura puramente finanziaria.
C’è ancora un problema di integrazione «economico-finanziaria» nell’assenza di «una strategia comune volta a rafforzare la posizione competitiva dell’Unione verso altre aree geografiche». Si è lasciato così spazio agli “arbitraggi” tra sistemi giuridici, con un accavallarsi di norme dove però alla fine la Ue non dispone di «incisivi poteri di controllo» sull’attuazione delle regole a livello nazionale. Quando invece «un sistema di regole e di vigilanza unitari e coordinati a livello europeo», secondo il presidente Consob, sarebbe «l’unico strumento in grado di cogliere contemporaneamente i due obiettivi della tutela dei risparmiatori e la competitività del mercato». Ci vorrebbe insomma un “Testo unico della finanza” europeo, e una fiscalità armonizzata sulle rendite finanziarie. Solo così l’unione del mercato dei capitali «potrà rappresentare il cruciale punto di passaggio verso una vera unione economica e fiscale». Che «la moneta da sola non basta», ormai è chiaro a tutti.