A Madrid hanno fatto shopping il fondo Qia del Qatar e Temasek di Singapore. Il fondo pensioni del Canada e l’International petroleum investment company degli Emirati arabi uniti. Acquistano nell’immobiliare, ma anche in settori più strategici dell’economia nazionale come l’industria, le nuove tecnologie, l’energia. Proprio in Spagna sono stati conclusi alcuni dei più importanti affari del 2013: l’aumento del capitale investito da Qia in Iberdrola, il distributore di gas ed elettricità, e sempre nel settore dell’energia l’investimento di Temasek in Repsol; ma anche l’acquisto del Barcelona’s Hotel W da parte di Qatari Diar.
«Se nel 2011 i fondi arabi sono stati i principali protagonisti degli investimenti in Spagna – ricorda Paolo Sersale, responsabile della practice Corporate e M&A di Clifford Chance in Italia – più recentemente anche i fondi asiatici hanno avuto un ruolo importante. L’accento si è spostato su settori precedentemente tralasciati, come le infrastrutture e l’immobiliare, che ha riacquistato fascino». Inoltre, già nel 2011 in Spagna gli investimenti dei fondi esteri in It sono aumentati del 90 per cento.
Sessanta (miliardi) contro uno. La domanda dunque è: che cos’ha la Spagna che non abbiamo noi? Industrie e marchi migliori? No. Semplicemente, è che i fondi sovrani la vedono più stabile. E per un investitore mosso dall’obiettivo di diversificare le proprie fonti di profitto derivanti dal petrolio verso investimenti spendibili nel lungo periodo, il concetto di stabilità è tutto.
Stabili gli spagnoli, che nel 2012 stavano parecchio peggio di noi? Che rispetto all’Italia hanno più debito, più disoccupazione, meno asset e per di più uno spread equivalente? Sì, stabili. Perché a differenza nostra hanno fatto le riforme strutturali. Quattro, in tutto. Quella del lavoro ha portato flessibilità nelle assunzioni, nei licenziamenti e anche nei salari. La riforma finanziaria ha permesso al sistema bancario spagnolo di segregare gli asset tossici, costituendo una bad bank, la Sareb, che ad oggi ha preso in gestione 55 miliardi di euro di asset problematici, prevalentemente legati al comparto immobiliare. Anche la legge fallimentare è stata riformata, due volte: la prima, nel 2003, ha istituito il procedimento giudiziale unico, per la soddisfazione dei creditori e al contempo la sopravvivenza dell’impresa e il mantenimento dei posti di lavoro; e la seconda, nel 2011, ha semplificato la procedura creata otto anni prima privilegiando gli accordi extragiudiziali e le ristrutturazioni d’impresa. Infine, la riforma del settore energetico spagnolo ha corretto lo squilibrio tra i costi di produzione e le tariffe applicate ai consumatori (i primi più alti delle seconde), in modo da garantire la sostenibilità finanziaria del sistema.
«Queste riforme – sostiene Sersale – hanno ridato credibilità al Paese. È così che la Spagna, pur non essendo uno dei big del G8, si è resa capace di diventare appetibile per i fondi sovrani garantendo loro un contesto competitivo». Cosa che l’Italia ancora non offre. Perché è vero che i fondi mediorientali hanno effettivamente ricominciato a guardare al nostro Paese e a fare accordi con il Fondo Strategico Italiano. Ma il primo pensiero, quando si chiede loro cosa li lascia perplessi dell’Italia, è sempre lo stesso: la poca credibilità.
Chi non incorre mai nel pericolo è il nostro rivale europeo di sempre, la Germania. I fondi sovrani continuano a considerare questo un Paese-rifugio, la cassaforte sicura dei propri investimenti. Però, a conti fatti, le imprese tedesche negli ultimi dieci anni hanno intascato “solo” 7,6 miliardi di euro. Shopping sicuro, è vero. Ma i veri affari oggi, si fanno in Spagna.