15.02.2016

Si va verso il pieno di ruling

  • Italia Oggi

L’utilizzo diretto batte la concessione in licenza di marchi e brevetti sul patent box. Circa il 97% delle istanze di accesso al regime agevolato presentate finora all’Agenzia delle entrate ha infatti per oggetto lo sfruttamento interno del bene immateriale: ciò comporterà, ai sensi di quanto previsto dalla legge n. 190/2014, l’obbligo di attivare il ruling (ossia la procedura di accordo preventivo) con l’amministrazione finanziaria per avere diritto al beneficio fiscale. Un compito che si presenta come molto impegnativo sia per gli uffici sia per i professionisti stessi, tenuto conto che i possibili casi di ruling sono 4.338 sui 4.498 complessivamente pervenuti.

È probabile che alla fine una parte di queste pratiche verrà meno, a seguito del ripensamento da parte dei contribuenti. Dati i tempi stretti per aderire già sul 2015 (la domanda andava presentata entro il 31 dicembre scorso e il provvedimento è uscito solo un mese prima), era stata la stessa Agenzia a invitare i potenziali soggetti interessati a presentare comunque l’istanza. In molti, specie tra le piccole e medie imprese, lo hanno fatto senza avere ancora un’idea chiara del rapporto costi-benefici. E nel corso degli approfondimenti effettuati in queste settimane, molti potrebbero arrivare alla conclusione che il patent box non conviene, in quanto gli oneri professionali e amministrativi necessari a confezionare la richiesta di agevolazione superano i benefici in termini di risparmio futuro. Chi invece reputa conveniente proseguire su questa strada, dovrà sedersi al tavolo con le Entrate e discutere le regole del gioco.

Nei casi di utilizzo diretto, infatti, il ruling obbligatorio è volto a definire ex ante il contributo economico alla produzione del reddito di impresa (o della perdita) dei beni immateriali oggetto di agevolazione. Non si tratta quindi di stabilire un numero (importo dell’agevolazione), quanto piuttosto un criterio (metodo di calcolo dell’agevolazione), che dovrà essere poi applicato di anno in anno dalla società in sede di dichiarazione dei redditi.

In fase di ruling sarà pertanto necessario identificare una società «figurativa» (IP business) alla quale attribuire il ricavo implicito derivante dallo sfruttamento economico del bene immateriale da parte dell’azienda «reale». In questa ipotesi, come già chiarito dalle Entrate con il provvedimento del 1° dicembre e ribadito la scorsa settimana nel corso della tavola rotonda convocata con professionisti e associazioni di categoria, i metodi di calcolo da utilizzare nella quantificazione delle royalties implicite sono quelli contenuti nelle linee guida Ocse sui prezzi di trasferimento.

Altrettanto delicata per le aziende è la fase di mappatura dei costi riferibili ai beni immateriali. La disciplina del patent box, alla luce di quanto previsto dal «modified nexus approach» condiviso a livello internazionale, agevola soltanto i contribuenti che svolgono un’effettiva attività di ricerca e sviluppo. Indispensabile quindi un’attività di «tracking and tracing» di tutti i costi, sia per avere un quadro d’insieme delle voci riferibili al bene immateriale agevolato (prima) sia per distinguere i costi «buoni» da quelli «non buoni» ai fini del patent box (poi). La quota di reddito detassata deriva infatti da uno specifico rapporto, che vede al numeratore i costi di R&D sostenuti per il mantenimento, l’accrescimento e lo sviluppo del bene, e al denominatore i predetti oneri più i costi di acquisizione esterna dei beni e i contratti di ricerca stipulati a livello intercompany.

Insomma, valutazioni non alla portata di tutti i contribuenti, specie se si tratta di microimprese o pmi con una struttura amministrativa e gestionale poco avvezza a tematiche di transfer pricing. Il 43% delle domande di patent box fa capo a soggetti con volume d’affari inferiore ai 10 milioni di euro (1.960 casi), 659 dei quali mostrano un fatturato sotto al milione.

Da ultimo, non va dimenticata un’altra ragione che potrebbe parzialmente sfoltire le pratiche attualmente nelle mani del fisco. Circa un migliaio di istanze verte sui know-how, che per poter rientrare nella disciplina di favore devono essere «giuridicamente tutelabili». Una dicitura che, a differenza di altre tipologie di intangibili, può presentare criticità applicative, in quanto la corretta qualificazione di processi, formule e conoscenze tecniche, scientifiche o commerciali presuppongono analisi che nulla hanno a che vedere con il mondo tributario, ma con il diritto della proprietà industriale. Ed è possibile che talvolta il contribuente scopra nel corso degli approfondimenti che il «sapere» per il quale ha presentato l’istanza non rientra tra gli asset agevolabili.