La Cassazione, nell’affrontare la questione, sottolinea innanzitutto come la disciplina sia di recente cambiata. Infatti, l’articolo 3 del Regio decreto n. 1578 del 1933 è stato abrogato per incompatibilità dall’articolo 18 della nuova legge forense (la n. 247 del 2012) che ha dettato una nuova disciplina dell’incompatibilità della professione di avvocato con l’attività d’impresa. La disposizione prevede ora che la professione di avvocato è incompatibile con la qualità di presidente del consiglio di amministrazione di con poteri individuali di gestione di società di capitali.
Pur non essendo la norma applicabile in maniera retroattiva, dal momento che in materia disciplinare e quindi amministrativa non può scattare il principio di origine penalistica di applicazione anche per il passato della misura più favorevole, tuttavia recepisce sostanzialmente un principio che era già stato enunciato e applicato da parte delle Sezioni unite stesse, nella parte in cui dichiarava la professione di avvocato incompatibile con l’esercizio della professione in nome altrui. A fare la differenza non è tanto l’assunzione della carica di amministratore delegato, o di presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, quanto piuttosto il fatto che la carica comporta effettivi poteri di gestione o di rappresentanza.
Il Cnf, invece, ha evitato di svolgere un’indagine un po’ più approfondita, ritenendo sufficiente, per infliggere la sanzione, l’assunzione della carica di presidente del cda. Avrebbe dovuto, invece, verificare se il praticante fosse anche titolare di poteri di gestione.
Quanto all’altra sentenza, la 25795, le Sezioni unite hanno invece ritenuto fondata la posizione del Cnf che ha inflitto la sanzione dell’avvertimento all’avvocato che utilizza notizie apprese da un vecchio cliente in un altro procedimento penale, malgrado le notizie siano state oggetto di diffusione da parte di organi di informazione.
Il Consiglio nazionale forense, in un lettura avallata dalla Cassazione, ha precisato che l’articolo 51 del Codice deontologico tutela un bene giuridico ulteriore rispetto alla semplice esigenza di non fare conoscere all’esterno fatti personali di cui l’avvocato può essere venuto a conoscenza nell’esercizio della professione. La disposizione interviene cioè a proteggere il rapporto tra avvocato e assistito «tale da impedire all’avvocato di divulgare e/o comunque adoperare in maniera scorretta informazioni che, a prescindere dal fatto che siano o no ancora sconosciute all’opinione pubblica, comunque non possono essere rivelate da chi, per doveri inerenti alla professione svolta, non può comunque rivelarle».