Il legislatore prende atto del complessivo fallimento del processo di dismissioni di società partecipate tentato (più volte) e prova a ridargli vigore, anche se usando una tecnica normativa che lascia perplessi.
Il comma 569 dell’articolo 1 della legge di stabilità 2014, (legge 147/2013) complice forse il suo prorogare una previsione di legge che ormai si riteneva avere esaurito i propri effetti, è stato ad oggi sottovalutato nel suo potenziale impatto.
La norma, peraltro, trova sostanziale conferma nel D 16/2014 (cosiddetto «Salva Roma), emanato dal governo Renzi, che si è limitato a posticiparne ulteriormente i termini, senza però modificarne in nessun modo il contenuto.
La legge di stabilità, in sostanza, interviene sull’articolo 3, comma 27 e seguenti della legge 244/2007 (Finanziaria per il 2008), ovvero su quel pacchetto di regole definite delle “dismissioni” e che, in estrema sintesi, prevede che le pubbliche amministrazioni da una parte «non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali» (comma 27) e che, ove avessero delle partecipazioni “vietate” (è il termine che usa la legge, al successivo comma 29), le dovessero cedere «entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge», ovviamente «nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica».
Anzitutto, il comma 569, curiosamente, proroga o meglio rinnova il termine per cedere le quote societarie, che era ormai scaduto dal 2010, di altri 12 mesi a partire dalla pubblicazione del decreto “Salva Roma”.
In ogni caso non si tratta di mera proroga. Infatti il legislatore introduce per dare concretezza alla norma delle importanti novità.
Per prima cosa, si prevede che, ove decorrano inutilmente questi 12 mesi, «la partecipazione non alienata mediante procedura di evidenza pubblica cessa ad ogni effetto».
È utile interrogarsi su questo «cessare ad ogni effetto» di un diritto di proprietà. Vuol forse significare che si perdono i diritti ed i doveri del socio? Se è così viene da domandarsi, quando la partecipazione sia di controllo, come potranno funzionare gli organi societari. Si potrà perfino verificare il caso paradossale (ma non infrequente) di un socio unico che non avrà più la capacità di esercitare il diritto/dovere di voto in assemblea, con la conseguenza di costringere gli amministratori della società a deliberare la liquidazione per il mancato funzionamento degli organi sociali. E, ancora, viene da chiedersi se la società possa in questi frangenti mantenere degli affidamenti diretti, visto che il Comune non sarà più in grado, ad ogni evidenza, di esercitare un controllo analogo.
Ancora, come si concilia tutto ciò con i doveri di controllo dell’azionista pubblico, introdotti dal decreto enti locali? La norma, in sostanza, rischia di confliggere con il Codice Civile, con il Tuel, e con la disciplina comunitaria dell’in house providing.
Ancora, il comma introduce una modalità di liquidazione delle quote ex lege. Infatti, «entro dodici mesi successivi alla cessazione la società liquida in denaro il valore della quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti all’articolo 2437-ter, secondo comma, del codice civile».
L’intento è chiaro: portare ad effetto le delibere del Consiglio comunale che sono rimaste lettera morta a causa del disinteresse del mercato per l’acquisto delle quote societarie.
La strada immaginata, però, rischia di portare al dissesto società anche importanti, nel caso in cui le quote da liquidare siano complessivamente rilevanti in termini di valore: è chiaro che l’obbligo di liquidazione in denaro delle stesse rischia di pregiudicare la continuità aziendale e di costringere comunque la società alla liquidazione.
In sostanza, in assenza di acquirenti interessati, la norma rischia di non portare alla cessione della quota pubblica, ma alla messa in liquidazione di aziende che di per sé magari sono in utile.