«Chi sei è più importante di “cosa” fai», recita uno dei principi «certificati» dall’istituto leader della consulenza nel settore. Difatti. Steve Jobs da solo valeva il 60% della reputazione della Mela. Quando è morto, nell’ottobre 2011, in Apple restava ancora abbastanza di lui da garantire al gruppo il secondo posto nella «reputazione per sostenibilità». Dopo, inesorabile, la secca caduta: quinta posizione nel 2012, nona l’anno dopo, e solo ora una parziale ripresa con il ritorno alla quinta.
Vale per tutti, e dunque anche per le società italiane. Se ne piazzano ben sei, tra le prime cento della classifica (che verrà pubblicata oggi e che Il Corriere della Sera anticipa in contemporanea con Forbes ). Non è una pattuglia sparuta come potrebbe sembrare, visto che sono 15 i Paesi presi in considerazione. Quel che stupisce, semmai, è che non ci siano big come Fca o Eni — spiegazione di Reputation Institute: è il livello di reputazione in patria, a non metterle in gara — e che cinque di quelle sei siano aziende non quotate. Non lo è Ferrero, primo dei gruppi made in Italy con il suo 34° posto, e non lo sono Armani (44), Lavazza (60), Barilla (73), Benetton (76). Solo Pirelli, seconda società tricolore in graduatoria (47° posto), in Borsa c’è. Che la sostenibilità e l’attenzione al sociale siano, da noi, più semplici fuori da Piazza Affari?