Il capitale può essere costituito da soli conferimenti in denaro. I soci possono anche essere soggetti non professionisti, per prestazioni tecniche o finalità di investimento. Il socio non professionista per finalità di investimento può essere non solo una persona fisica, ma anche una società: ciò è confermato sia dal tenore della disposizione che si riferisce ai «soggetti non professionisti», sia dall’esplicito riferimento alle società contenuto nel comma 5 dell’articolo 6 del Dm 34/2013 secondo cui le incompatibilità si applicano anche ai legali rappresentanti e agli amministratori delle società, le quali rivestono la qualità di socio per finalità d’investimento di una Stp.
I soci professionisti devono avere i 2/3 dei voti; ciò non esclude che i soci non professionisti possano detenere la maggioranza assoluta del capitale sociale. Basta riconoscere ai soci professionisti un diritto di voto non proporzionale alla partecipazione detenuta per rispettare, dal punto di vista formale, il rapporto di 2/3.
Gli elementi illustrati sembrano delineare un modello societario in cui, ad esempio, i soci «con finalità di investimento» potrebbero potenzialmente avere anche la maggioranza assoluta del capitale e controllare l’organo amministrativo, oppure, in cui, alcuni soci professionisti possono essere dei semplici “investitori” e non apportare la loro opera, ovvero in cui è presente un unico socio professionista con capitale prevalente di soci investitori.
In questi casi, nonostante l’oggetto sociale sia costituito dall’esercizio dell’attività professionale, l’elemento prevalente potrebbe diventare l’investimento finanziario (contribuendo, tale elemento, ad accrescere l’impronta imprenditoriale delle società tra professionisti).
Altro elemento da sottolineare è che, né la norma istitutiva (articolo 10, legge 183/2011), né il regolamento attuativo prevedono l’esclusione della società tra professionisti dalle procedure concorsuali.
Per le società tra avvocati la legge forense stabilisce, invece, espressamente che l’esercizio della professione forense in forma societaria non costituisce attività d’impresa e, pertanto, la società tra avvocati non è soggetta al fallimento, né alle procedure concorsuali diverse da quelle di composizione delle crisi da sovraindebitamento.
Si osserva, inoltre, che l’interpretazione che ha portato ad affermare la natura di lavoro autonomo del reddito delle società tra avvocati nella risoluzione n. 118/2003 era “confortata” dalla relazione illustrativa al decreto legislativo 96/2001, a cui il provvedimento di prassi rinvia, laddove veniva affermato che il richiamo alle norme sulla Snc «non implica la qualificazione della società tra avvocati come società commerciale …» e che l’esclusione della società tra avvocati dal fallimento «conferma la specificità del tipo e la natura non commerciale dell’attività svolta», ovvero che lo «strumento societario non può comunque vanificare i requisiti della personalità e della professionalità del soggetto esercente».
Nel caso delle società tra professionisti, proprio in assenza di sicuri riferimenti interpretativi presenti, invece, per le società tra avvocati, appare alquanto incerto derogare al principio del Tuir secondo il quale il reddito prodotto dalle società di persone e dalle società di capitali è considerato reddito di impresa «da qualsiasi fonte provenga».
Sembrano, quindi, sussistere forti scostamenti dai presupposti che hanno portato ad affermare la natura di lavoro autonomo della società tra avvocati, rispetto alla Stp. Occorre quindi una norma che agisca in tal senso, sulla falsariga di quella già proposta nel ddl semplificazioni.