05.08.2020

«A queste nozze tra finanza e impresa non potevamo dire no»

  • Il Sole 24 Ore
«Una principessa che diventa regina, perché convola a nozze con il sovrano: nozze applaudite da tutti, visto che alla fine hanno ottenuto oltre il 90% dei consensi». Dietro la metafora utilizzata da Armando Santus per definire Ubi Banca si riescono a intuire molti degli elementi fattuali e degli umori che hanno scandito l’offerta appena conclusa con successo da Intesa Sanpaolo: l’apprezzamento per i risultati ottenuti da chi fino a questo momento ha guidato la ex-popolare lombarda, il riconoscimento del valore e del ruolo di Intesa Sanpaolo anzitutto. Si intravedono però anche le fasi travagliate che hanno caratterizzato i mesi precedenti la celebrazione e che hanno visto i soci storici di Ubi riuniti nel patto di consultazione Car fra i principali protagonisti, prima fra i più fieri oppositori e poi fra gli aderenti all’offerta.
La vostra inversione a «U» ha fatto discutere: cosa vi ha veramente convinto alla fine?

L’offerta iniziale non era concordata, né adeguata. Il rilancio ha riconosciuto una parte del valore che mancava, ma da solo non era sufficiente per convincere tutti gli aderenti al nostro patto, in particolare gli imprenditori che lo compongono. Da Intesa sono però arrivate ampie rassicurazioni che hanno contribuito a creare un clima di fiducia reciproca e di ottimismo verso il futuro.

Quali?

Anzitutto la tutela e la valorizzazione del personale di Ubi Banca, che sarà trattato alla pari di quello di Intesa Sanpaolo, con possibilità di accesso alle stesse opportunità di carriera e di sviluppo professionale. Poi la particolare attenzione dedicata al territorio, attraverso una presenza e un’assistenza capillare ai clienti che prevede anche la continuità nello sviluppo dei progetti già intrapresi da Ubi. Infine l’idea di considerare la presenza stabile di un’ampia e qualificata compagine di imprenditori fra i soci come un valore da apprezzare e consolidare, sia attraverso iniziative già collaudate, sia con nuove forme di collaborazione con i vertici della banca nel rispetto delle regole e delle migliori prassi internazionali.

In che modo vi sentite tutelati?

È stata data attenzione a quelle che definisco le quattro ruote motrici della banca: nell’ordine clienti, dipendenti, territori e azionisti. Pensiamo che questi siano i presupposti necessari perché attraverso Intesa-Ubi si crei quella alleanza fra impresa e finanza che da una parte possa mettersi al servizio del Paese e dall’altra permetta di creare quel valore che è stato promesso al mercato.

È amareggiato di come si sia conclusa la vicenda Ubi?

Direi di no. Intanto non parlerei di fine, ma di un nuovo inizio. Negli anni la banca si era trasformata ed era cresciuta sotto l’aspetto patrimoniale, ma anche dell’attenzione dedicata ai territori e dell’organizzazione. E questo è stato possibile grazie al contributo fornito da amministratori capaci come Corrado Faissola, Emilio Zanetti, Andrea Moltrasio, Giuseppe Camadini, Letizia Moratti e naturalmente Victor Massiah. La creazione del Car era in fondo avvenuta proprio con lo scopo di seguire la banca nella nuova fase.

Perché?

Il percorso di sviluppo di Ubi, trasformata da popolare in Spa e con un sistema di governance che passa da duale a monistico, rendeva necessaria un’evoluzione dell’azionariato in modo da guardare al futuro. Il Car infatti era nato non per contrastare altri gruppi di soci e senza propositi di rottura o rivincita, né di contrapposizione personale o territoriale, ma per un’assunzione diretta di responsabilità da parte degli azionisti a fare più sistema per la valorizzazione della banca e per sostenere in termini finanziari le proposte di sviluppo dei dirigenti, comprese possibili acquisizioni in vista della creazione del terzo polo. Per essere quindi un vero e proprio punto di riferimento.

Acquisizioni che però non sono arrivate perché si è mossa prima Intesa. Si poteva fare di più sotto questo aspetto?

L’autorizzazione della Bce è arrivata il 20 gennaioscorso, ed è stato un riconoscimento importante perché era la prima volta per un patto bancario con una partecipazione vicina a una soglia rilevante quale il 20 per cento. Da parte nostra avevamo già avviato contatti con altre strutture imprenditoriali al di fuori delle storiche zone di riferimento come la Lombardia e avevamo pronto un protocollo di stewardship per creare un confronto dialettico con gli organi della banca. Solo pochi giorni dopo è arrivata l’offerta.

Che futuro si attende adesso nella nuova realtà per gli azionisti che avevano vita al patto?

Non ci sono vincitori né vinti: lavoreremo tutti uniti sotto un’unica bandiera per lo sviluppo socio economico del Paese, aggregando valori e capacità in una grande alleanza fra finanza e impresa. Così come in fondo indicano i nomi stessi delle due banche: Unione e Intesa.