21.02.2013

Protetta la sede adiacente alla casa

  • Il Sole 24 Ore

Se il luogo dove viene svolta l’attività commerciale o professionale ha porte comunicanti con l’abitazione del contribuente, il locale va considerato ad uso promiscuo, quindi l’accesso dell’amministrazione finanziaria per un controllo va autorizzato dal Procuratore della Repubblica. Senza autorizzazione, gli atti compiuti e l’avviso di accertamento sono nulli. La Cassazione fornisce questo importante principio con la sentenza 4140/13 depositata ieri.
A un’impresa venivano contestate alcune violazioni fiscali connesse all’utilizzazione di fatture ritenute false. I rilievi conseguivano a un controllo avviato con un accesso dei verificatori nella sede dell’impresa.
Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento eccependo che il luogo di svolgimento dell’attività era adiacente alla propria abitazione e che i due locali risultavano comunicanti attraverso delle porte. Il tutto era documentato con atti e piante catastali.
Ne conseguiva, secondo la tesi difensiva, che per eseguire l’accesso il personale dell’amministrazione finanziaria doveva essere munito dell’autorizzazione del Procuratore della Repubblica. In assenza di questa autorizzazione, si eccepiva la nullità dell’accertamento in quanto viziato inizialmente da tale violazione.
Sia la Commissione tributaria provinciale, sia quella regionale cui si era appellata l’agenzia delle Entrate soccombente in primo grado, condividevano la tesi difensiva e quindi annullavano l’atto impositivo.
Quindi l’amministrazione ricorreva per cassazione, eccependo in buona sostanza che il giudice di secondo grado aveva erroneamente applicato le prescrizioni in tema di accesso previste dall’articolo 52 del Dpr 633/72.
In particolare, l’Agenzia evidenziava che effettivamente per accedere nei locali adibiti ad uso promiscuo è necessaria l’autorizzazione del Procuratore ella Repubblica ma che, per aversi tale uso, i locali – utilizzati per lo svolgimento dell’attività e per abitazione – devono essere i medesimi.
Nella sentenza della Ctr, secondo l’ufficio, non era compiutamente motivato se, nella specie, il locale fosse stato ritenuto esattamente il medesimo ovvero si era in presenza di spazi distinti anche se adiacenti, nel qual caso non scattavano le garanzie previste dall’articolo 52.
Da qui la richiesta di riforma della sentenza.
La Corte di cassazione ha confermato la pronuncia di secondo grado e quindi ha ritenuto nullo l’atto impositivo, fornendo nel contempo, alcuni princìpi particolarmente interessanti.
Innanzitutto, i giudici di legittimità hanno chiarito che nella specie emergeva dalla sentenza della Ctr che i locali adibiti ad abitazione e quelli desinati ad opificio erano distinti, ma adiacenti. Tra gli uni e gli altri, però, vi erano porte di comunicazione.
Tale circostanza è sufficiente per classificare detti locali ad uso promiscuo agli effetti dell’articolo 52 del Dpr 633/72, con la conseguenza che i verificatori avrebbero dovuto osservare le garanzie previste da tale norma e quindi richiedere l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica.
Non è necessario, contrariamente a quanto sostenuto dall’agenzia delle Entrate, che i locali in questione siano i medesimi e cioè che in essi venga esercitata l’attività commerciale e siano pure adibiti ad abitazione.
Ne consegue, per la Suprema Corte, che l’atto di accertamento in contestazione è nullo in virtù del principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita.
Questo principio, infatti, trova applicazione anche in campo tributario in considerazione delle garanzie difensive accordata dall’articolo 25 della Costituzione.