Manovre di assestamento in Poste Italiane. Il gruppo guidato dall’amministratore delegato Francesco Caio non solo congela l’annunciata chiusura degli uffici postali (sui 400-500 previsti si è fermato a circa 200) , ma punta a rafforzare le filiali con i suggerimenti degli enti locali. Rivoluzione. Inoltre sta per varare, con l’assemblea del 24 maggio, un piano di stock option per i dirigenti (incluso Caio, già socio): «Piano 2016-2018 di incentivazione sul lungo termine», dice l’ordine del giorno. Con l’assemblea saliranno da sette a nove i consiglieri, con due indipendenti. Caio è appena intervenuto sul settore Pcl (Posta, corrispondenza e logistica) con un giro di poltrone: il responsabile Roberto Giacchi è stato sostituito settimana scorsa da Massimo Rosini, ex direttore generale Ilva. Già al lavoro su un business che col servizio universale perde più di quanto lo Stato ripiani.
La Fase 2
Sono cambiamenti significativi, mentre il governo (Cgil contraria) valuta la cessione di un’altra quota di Poste, dopo la quotazione in Borsa del 27 ottobre. Dal debutto al 14 aprile scorso il titolo ha perso il 4% (meglio dell’indice Ftse Mib, però, che nel periodo ha fatto -18%) e resta sotto il prezzo di collocamento malgrado gli annunci positivi del 22 marzo sul bilancio 2015: +8% i ricavi consolidati a 30,7 miliardi, +27% il risultato operativo a 880 milioni, più che raddoppiato l’utile netto a 552 milioni, +3,1% le masse gestite a 476 miliardi. E una proposta di dividendo di 34 centesimi. Risultati inferiori al 2012-2013 quando gli utili superavano il miliardo. Ma questi numeri «e i dividendi messi in pagamento sono stati interpretati dagli investitori come un segnale concreto dell’attuazione del piano industriale», dice Poste il cui vertice settimana scorsa ha incontrato la finanza a Londra, Boston e New York.
Le banche si aspettano che la fase 2 della privatizzazione parta dopo l’estate e che il Tesoro, azionista al 64,7%, ceda fino al 35%: resterebbe con circa il 30% incassando, ai valori attuali, fino a 4,5 miliardi.
La chiusura degli uffici postali era uno degli elementi del piano di Borsa. Ora si svolta perché lo prevede il nuovo contratto di programma. D’intesa con le Regioni, con cui i rapporti sono ancora tesi.
La settimana scorsa l’Emilia Romagna ha accusato Poste di ritardi nelle consegne. E Piemonte, Lombardia, Toscana, i più duri contro i tagli di filiali, ora possono chiedere il conto. «Abbiamo lavorato per far capire a Poste che la chiusura non era sostenibile — dice Aldo Reschigna, vicepresidente del Piemonte —. Adesso vogliamo riprendere la trattativa. Almeno il 20% dei nostri 75 uffici postali chiusi o ridimensionati può essere recuperata. C’è un intervento del governo importante sull’universalità del servizio che va garantito anche alle aeree deboli». Il riferimento è a una lettera del 17 marzo del sottosegretario allo Sviluppo Antonello Giacomelli ai governatori, che ricorda come nel contratto di programma in vigore da gennaio con Poste ci sia «un vero cambio di prospettiva». E cioè che per Poste «la presenza capillare di 13 mila uffici postali è considerata un valore e non un onere».
È la svolta dell’articolo 5, con cui le Poste si impegnano non a tagliare, ma a «valorizzare la capillarità degli uffici». Perciò Giacomelli ha invitato le regioni ad «avanzare proposte che rafforzino l’offerta dei servizi postali». «La prossimità è un elemento distintivo del marchio — replica Poste —. Nell’ambito dell’impegno di ottimizzazione abbiamo completato il piano 2015. Siamo consapevoli del ruolo che possiamo svolgere nel contribuire a mantenere una presenza di servizio nelle piccole comunità, ma che per farlo serve un ingaggio con le amministrazioni locali come indicato nel nuovo contratto di programma».
L’alternativa
L’idea è destinare gli uffici postali (secondo un’analisi di R&S Mediobanca sono quasi pari alla somma di quelli delle cinque grandi banche, vedi tabelle) anche ad altro: «Servizi per l’Agenda digitale, di pagamento e riscossione, la messa a disposizione di applicativi per la pubblica amministrazione, soluzioni per abbattere il divario digitale, ecommerce», elenca l’azienda.
La corrispondenza resta comunque il primo problema. Giacchi, ex Bain, ex amministratore delegato di Poste Mobile, era stato chiamato dallo stesso Caio. Ora è al business grandi clienti della Pubblica amministrazione (il cui capo, Vincenzo Pompa, è andato a Postel). Per il suo sostituto Rosini (conosciuto da Caio in Indesit), non sarà facile. I servizi postali e commerciali hanno generato nel 2014 una perdita operativa netta di 504 milioni, che ha abbattuto del 73% il margine di gruppo (dati R&S Mediobanca). Al contrario l’Ebit dei servizi finanziari in tre anni è salito da 580 a 766 milioni e quello dei servizi assicurativi è raddoppiato da 199 a 415 milioni. «Siamo in piena esecuzione del piano industriale, gli azionisti hanno mostrato soddisfazione, è solo l’inizio», dice Poste. Fra i progetti, il lancio di un nuovo conto corrente entro l’anno.