Anche le scorte di benzine sono aumentate (+1,6 mb), nonostante i consumi si mantengano robusti e le raffinerie americane abbiano rallentato il passo, utilizzando solo l’88,1% della capacità degli impianti, l’1,3% in meno rispetto alla settimana precedente, in un periodo in cui di solito – alla vigilia della driving season – si assiste invece ad un’accelerazione.
Dietro la risalita del petrolio, in recupero di circa il 60% dai minimi pluriennali di gennaio, c’è in parte il peso della speculazione, diventata rialzista dopo l’emergere di alcuni importanti segnali di ribilanciamento dei fondamentali. La produzione nei Paesi che non fanno parte dell’Opec, ha cominciato a diminuire. La scorsa settimana Fatih Birol, numero uno dell’Agenzia internazionale dell’energia, ha dichiarato di attendersi per quest’anno un calo di 700mila barili al giorno della produzione non Opec. Se le stime fossero confermate si tratterebbe della maggior flessione da 25 anni a questa parte. L’Aie stessa, in linea con la maggior parte degli analisti, ritiene che domanda e offerta torneranno in equilibrio nella seconda metà dell’anno: un presupposto fondamentale per la ripartenza dei prezzi. In questo senso peraltro va letto anche l’ultimo Commodity Outlook della Banca Mondiale, pubblicato martedì, in cui – proprio sulla prospettiva di una graduale riduzione degli squilibri – sono state riviste al rialzo le previsioni sui corsi del greggio, da 37 a 41 dollari al barile.
Conferme in questo senso sono arrivate anche dalle statistiche di ieri dell’Eia, che a parte la risalita delle scorte hanno certificato un ulteriore calo della produzione negli Usa, a 8,94 mbg, il minimo da ottobre 2014.
Alcuni segnali di inversione di tendenza sono arrivati anche dai conti trimestrali delle società petrolifere. Dopo i risultati oltre le attese pubblicati martedì dalla britannica Bp (utile al netto delle poste straordinarie di 532 milioni di dollari contro una perdita di 238 messa in conto dal consensus degli analisti), sono arrivate ieri le trimestrali della norvegese Statoil, il cui profitto da 4,9 miliardi di corone è stato pari al triplo delle previsioni degli analisti, e dalla francese Total tornata all’utile per 1,6 miliardi di euro con un dato superiore del 30% a quanto messo in conto dal mercato.
Il comparto energia ha fornito sostegno alle borse, contrastando le spinte negative dal settore tecnologico a Wall Street, con Apple che è arrivata a perdere fino al 7% in reazione al calo delle vendite di iPhone, che le è costato il primo declino dei ricavi dal 2003, e Twitter giù di oltre il 15%. La società di microblogging ha ridotto le perdite nel primo trimestre (da 162,4 a 79,7 milioni di dollari), ma ha deluso sul fronte dei ricavi: a 594,5 milioni, nei primi tre mesi dell’anno sono cresciuti molto meno delle attese e per il trimestre in corso l’outlook è stato rivisto al ribass, a 590-610 milioni di $, contro i 677,57 milioni del consensus.
La forza del petrolio ha avuto ripercussioni anche sui «bond spazzatura» emessi dai produttori di shale oil americani: stando alla banca dati S&P Capital IQ, il tasso di rendimento medio a un mese delle obbligazioni high yield del settore energia quotate in dollari è passato da un massimo del 15% toccato a inizio febbraio all’attuale 7 per cento.
Bisognerà vedere come e quanto la risalita del petrolio influirà sulle aspettative di inflazione in Europa e Stati Uniti. E quindi sulle scelte di politica monetaria e sui tassi del mercato obbligazionario. Per i tassi restano ancora estremamente bassi. Proprio ieri il Tesoro si è rifinanziato a sei mesi collocando BoT per un ammontare di 6 miliardi di euro ed un tasso negativo dello 0,172 per cento. Su nuovi minimi storici.
Andrea Franceschi