11.07.2019

Paradosso banche: virtuose sugli Npl ma punite in Borsa

  • Il Sole 24 Ore

Che succede alle banche italiane? Nonostante stiano facendo di tutto per migliorare il profilo di rischio, gli istituti domestici continuano a soffrire in Borsa. Nell’ultimo anno, calcola Equita Sim, la capitalizzazione di mercato si è ridotta del 22 per cento, qualcosa come 20 miliardi in meno di valore. Eppure, se si va a vedere nel dettaglio, il percorso fatto in termini di alleggerimento della rischiosità degli attivi è stato notevole: nello stesso periodo di tempo, a forza di cessioni e cartolarizzazioni, il processo di derisking ha permesso di ridurre lo stock di crediti deteriorati (non performing exposure) del 36%. In un anno, di fatto, le banche si sono liberate di 69 miliardi di Npe. E in più, altro aspetto positivo degli ultimi mesi, lo spread sovrano tra Btp e Bund è sceso di 30 punti base, elemento che ridà fiato al portafoglio titoli.

E allora, ritorna la domanda: perchè le banche italiane sono poco apprezzate in Borsa? Di risposte possibili, in verità, ve ne sono molte. E vanno ovviamente dalle basse attese rispetto alla redditività futura, rappresentata dalla (scarsa) crescita degli utili, o dei dividendi, o del valore rispetto al patrimonio tangibile. Gran parte del problema è ovviamente intrecciato al tema del rischio paese, fattore che continua ad aleggiare sulle prospettive degli istituti.

Ma una possibile risposta alternativa a questo problema riguarda anche la percezione da parte del mercato. Che, forse, non crede o non si fida delle promesse di medio/lungo termine, orizzonte temporale a cui invece i banchieri – sia in Italia che all’estero, come dimostra il recente caso Deutsche Bank – sembrano guardare con più interesse. Come dire: per convincere il mercato forse è meglio fissare obiettivi più a breve termine, e più raggiungibili (e quindi credibili), che target più elevati ma lontani nel tempo e difficili da agguantare (e meno credibili). A sollevare la questione è Equita Sim. Che, in un report sul settore appena pubblicato firmato dall’analista Giovanni Razzoli, ha raccolto gli umori dei principali banchieri italiani (ovvero i ceo o i cfo di Intesa Sanpaolo, UniCredit, Mps, BancoBpm, Ubi, Bper, Mediobanca e Credem) sulle prossime sfide, confrontandole con le attese del mercato. Risultato: le priorità strategiche che mettono in cima all’agenda i top manager «difficilmente possono migliorare il quadro in ottica di re-rating dei multipli» di mercato, spiega Razzoli. L’aumento del Rote (ritorno sul patrimonio tangibile) è considerato «prioritario da due terzi dei top manager ma solo in una prospettiva di medio periodo, indicazione che gli investitori non ritengono credibile», spiega l’analista. Nel contempo invece «nel breve termine il 40% dei partecipanti al questionario considera ancora necessaria una riduzione del profilo di rischio, che però il mercato non incorpora in termini di maggior valore». Se l’ulteriore scatto nel derisking rischia di non rivelarsi sufficiente a rasserenare il mercato, allora che cosa avrebbe senso fare? «Il contesto è difficile, va detto – spiega Razzoli – ma meglio fissare target più bassi nel breve termine». Dare visibilità e stabilità agli utili, insomma, «può essere più efficace che fissare target troppo elevati nel medio-lungo termine».