Ma la sorpresa non sta solo nei numeri. Quella crescita vuol dire soprattutto che le pur poche leggi – almeno rispetto al 1962 – che il Parlamento vara di questi tempi sono in realtà provvedimenti “mostruosi”, nel senso che sono copiosissimi di norme e pronti a occuparsi di tutto. Mostruosi e illeggibili. In una stessa legge si può passare con assoluta disinvoltura dalle misure sulle rocce da scavo a quelle sulla digitalizzazione del Paese.
I fatidici milleproroghe, i decreti più o meno blindati con tanto di fiducie e maxi-emendamenti annessi, le leggi di stabilità, hanno fatto la loro parte. E così, crisi o non crisi, le leggi sono diventate come centomila vagoncini agganciati a un treno Palermo-Milano. Con buona pace di chi, quelle leggi, deve leggerle e capirle. Figurarsi per l’italiano qualunque che dimestichezza con il giuridichese e il burocratese (fortunatamente) non ne ha. Appunto: altro che semplificazione e leggi chiare e trasparenti come le acque del poeta.
Sia chiaro, di scempi nel passato ne sono stati fatti. Eccome. E forse se non ci fossero stati, non saremo a questo punto con un debito nazionale a più zeri. Ma qualcosa almeno era diverso cinquant’anni fa. Non solo perché in quegli anni del boom gli italiani acquistavano auto, frigorifero e cominciavano ad andare in vacanza. Anche le leggi erano – appunto – meno voluminose: nessuna andava oltre i 100mila caratteri. C’era, insomma, un modo di essere più parchi anche nelle clientele. Tanto, per arrivare al risultato bastava essere più concisi, con pochi commi e poche parole. Le leggi affollate di norme (tra i 20mila e i 100mila caratteri) rappresentavano l’eccezione, appena il 6% della produzione legislativa. Molti di più erano, invece, i provvedimenti che non arrivavano a 1.500 caratteri: quasi il 42 per cento. Anche perché allora si faceva una legge per tutto: per esempio, le spese per i funerali del senatore Lorenzo Spallino o l’aumento del contributo a favore della Casa di riposo per musicisti “Giuseppe Verdi” di Milano avevano richiesto due distinti provvedimenti. Era, dunque, facile arrivare a centinaia di leggi.
Una tendenza che si è progressivamente ridotta, fino a che nella sedicesima legislatura non ha fatto la sua comparsa la classe degli oltre 100mila caratteri per legge. Nel 2012 il 14% dei provvedimenti varati aveva quelle dimensioni, mentre si è ridotta all’11% la quota delle leggi con meno di 1.500 caratteri. La percentuale dei provvedimenti giganti arriva al 20% se si considerano solo i decreti legge. E non poteva essere altrimenti, se si pensa che i 29 Dl del 2012 (e relative leggi di conversione) hanno prodotto la bellezza di 1,3 milioni di caratteri, un abisso rispetto ai quasi 800mila caratteri contenuti nelle 37 leggi ordinarie. Nel 2012, poi, sotto l’urgenza della crisi economica il Governo dei professori ha sfornato provvedimenti d’urgenza senza requie, ognuno (tranne rari casi) con uno spettro amplissimo del suo raggio d’azione.
Il decreto legge tende a crescere soprattutto durante l’iter di conversione: nel corso del passaggio parlamentare i commi aumentano a dismisura. E questo accade in particolare quando il Governo pone la questione di fiducia. È il prezzo che l’Esecutivo deve pagare – accettare, cioè, l'”obesità” del Dl, conseguenza degli emendamenti dell’ultima ora quasi sempre poco coesi con la natura del provvedimento – pur di scongiurare la decadenza del provvedimento. Il record di crescita nella passata legislatura spetta al decreto legge 112/2008 sullo sviluppo economico: è entrato in Parlamento con 491 commi, ne è uscito con 718. Ma i record sono fatti per essere battuti.