“Nessun uomo è un’isola”, prima di diventare una frase proverbiale, era un saggio del monaco trappista Thomas Merton, la cui autobiografia, “La montagna dalle sette balze”, è considerata uno dei cento migliori libri del ventesimo secolo. Il titolo del saggio è ripreso da un passo del 1624 del poeta John Donne: “No man is an island, entire of itself, every man is a piece of the continent”. Significa che ogni uomo è una componente integrante dell’umanità, parte di un tutto: chiunque sia, qualunque cosa faccia, dovunque si trovi. Un concetto messo a dura prova quando si arriva a Foula, l’isola più occidentale dell’arcipelago delle Shetland e la più remota della Gran Bretagna: in nordico antico vuol dire “isola degli uccelli”, ma è più eloquente il soprannome, “Ultima Thule”, l’espressione con cui nella cartografia classica si indicava un luogo così distante dalla civiltà conosciuta da essere ritenuto “il confine del mondo”.
Eppure, insieme a mandrie dei pony che dalle Shetland prendono nome e di pecore dal lungo pelo, a qualche cane da pastore, foche in abbondanza, stormi di pulcinelle marine e altri volatili, una trentina di esseri umani vivono nell’“isola più isola” d’Europa, per parafrasare il titolo del reportage di viaggio che il nostro scomparso collega Gianluigi Melega fece a un’altra destinazione di non facile accesso, la Sant’Elena dell’esilio di Napoleone. Abitata fin dai primordi, colonizzata a lungo dai vichinghi prima di passare alla Scozia e infine al regno britannico, Foula fu acquistata nel 1900 da Ian Holbourn, un docente di letteratura di Oxford che si innamorò di questo luogo selvaggio e ci si stabilì al momento della pensione.
Molti dei circa 30 residenti odierni sono suoi discendenti, ma qualcuno ci è capitato un giorno per caso e non si è più mosso.
Per avere un’idea del clima, la latitudine è la stessa di San Pietroburgo e Anchorage: il vento è così forte che gli uccelli volano all’indietro, piove quasi tutti i giorni, non c’è un albero. Sull’isola non c’è nemmeno un negozio o un pub, solo un minuscolo ufficio postale e un singolo Bed & Breakfast per i rari turisti, i rifornimenti giungono una volta alla settimana con ferry-boat o un piccolo aereo a otto posti, se le condizioni atmosferiche lo consentono. Il telefono esiste dagli anni ’60, l’elettricità va e viene, internet pure. Gli abitanti fanno a turno i pompieri, un’infermiera fornisce farmaci e cure minime, per i casi più gravi bisogna aspettare l’elicottero. “Nessun uomo è un’isola” vale anche quassù, ai confini del mondo? «Puoi scommetterci», sostiene Amy Ratter, pronipote del primo Holbourn, davanti alla sua fattoria di 22 pecore, 2 montoni, 14 maiali, un cane e un pony. Nata a Foula, se n’era andata bambina convinta di non tornare più. Un giorno è venuta con il suo compagno a salutare i nonni e da allora è rimasta. «Lavoro da mattina a sera per la mia terra e le mie bestie, ma nient’altro ti rende davvero felice», afferma. «Non stare alla scrivania in ufficio. Non andare al pub. Non fare shopping. Soltanto rimettersi a sedere al termine di una dura giornata sapendo che hai fatto il tuo meglio per il tuo pezzo di terra e la tua famiglia: ecco cosa ti rende felice». Non diceva qualcosa del genere anche il Candido di Voltaire?
Enrico Franceschini