01.03.2013

L’economia reale in caduta: dal 2011 sono peggiorati 13 indicatori su 16

  • Il Sole 24 Ore

Colpa dello spread, dell’austerità, di una crisi finanziaria arrivata da lontano come un’influenza invernale. Ma colpa anche dei mali strutturali che affliggono da decenni l’Italia, incapace di crescere anche negli anni buoni per tutti. Se la situazione del Paese sui mercati finanziari è oggi migliore rispetto a quella del novembre 2011, quando è nato il Governo Monti, lo stesso non si può dire dell’economia reale: non solo il Pil nel 2012 è sprofondato del 2,30%, ma su 16 indicatori relativi allo stato di salute dell’economia italiana presi in esame dal Sole-24 Ore, ben 13 sono peggiorati rispetto alla fine del 2011. Questo è il segnale di come la crisi finanziaria, nata in quel mondo quasi virtuale dei mercati e dei derivati, abbia colpito la vita di tutti i giorni. Di come l’austerità abbia peggiorato la situazione. Di come le carenze strutturali abbiano imbrigliato il Paese. Di come tutti i nodi siano venuti al pettine. Tutti insieme.
Un anno da dimenticare
Ormai non servono neppure più indicatori economici sofisticati, basta parlare con chiunque al bar. Il deterioramento rispetto alla fine del 2011 è tangibile ovunque. Un sondaggio Ipsos-Acri rivela per esempio che il 26% delle famiglie italiane dichiara di avere subito un peggioramento nel tenore di vita negli ultimi 2-3 anni. Soprattutto nell’ultimo anno. E un ulteriore 46% ammette di fare fatica a mantenere il tenore invariato. Il disagio finanziario degli italiani è così salito dal 16,3% del 2011 al 30,9% del 2012. Questo induce le famiglie a consumare di meno (il commercio al dettaglio è calato del 3,8% nel 2012), a bruciare i risparmi per pagare le spese, ad arrancare.
Anche le imprese faticano. La produzione industriale, secondo l’Istat, è scesa del 6,6% nel 2012. La loro fiducia è calata da quota 83 di fine 2011 a 75,9 (era a 100 nel 2005). Ma è soprattutto il tasso di mortalità a colpire: solo nel primo semestre del 2012, secondo i dati di Cribis D&B, sono fallite 6.321 aziende. Sono più di mille al mese. Quasi 35 al giorno. Più di una all’ora, includendo la notte. Questo di conseguenza aumenta la disoccupazione, passata in un anno dal 9,5% all’11,20%, e peggiora ulteriormente la condizione delle famiglie. E il vortice riprende.
In mezzo ci sono le banche, non meno in difficoltà. Il peggioramento dell’economia ha aumentato in maniera esponenziale i crediti in sofferenza, passati da 107 miliardi di fine 2011 a 124,9 miliardi. Questo rende difficile erogare nuovo credito. Così, secondo i dati Abi, lo stock di finanziamenti a famiglie e imprese è sceso di 38 miliardi rispetto alla fine del 2011. Sono un po’ calati i tassi d’interesse, grazie al ribasso dello spread BTp-Bund, ma non abbastanza per dare qualche beneficio reale all’economia. Anche perché le difficoltà dello Stato, che hanno causato un aumento della pressione fiscale dal 51,6% del 2011 al 55,5% del 2012 (stima Confcommercio), hanno peggiorato la situazione.
I mali del passato
Sarebbe però un errore attribuire all’ultimo anno tutti i mali. I problemi dell’Italia vengono da lontano. Dal 1990 a oggi il Pil del Paese è aumentato appena dello 0,8% annuo: si tratta della peggior performance tra tutti i Paesi industrializzati. Persino il Giappone, noto per la stagnazione perpetua, ha fatto meglio dell’Italia. Tutti i Governi che si sono succeduti dal 1996 ad oggi hanno fatto crescere l’Italia meno degli altri Paesi Europei (tranne in due casi, cioè nel Governo Amato del 2001 e in quello Berlusconi del 2001-2006 in cui la Germania fece peggio). La produttività dell’Italia, a partire dagli anni 80, ha perso colpi rispetto ai principali Paesi occidentali.
Il mercato del lavoro è ingessato, non da oggi, con un divario incolmabile tra chi un posto ce l’ha e chi no. La disoccupazione giovanile è al 36,6%. La differenza tra l’occupazione maschile e quella femminile è del 25%, contro il 10% delle principali economie avanzate. Insomma: l’austerità del 2012 avrà peggiorato la situazione, ma le cause della recessione sono ben più profonde. Per far ripartire il Paese serve dunque uno sforzo collettivo. Servono riforme vere: l’Italia ha un tessuto industriale, un risparmio privato e punti di forza che le permettono di ripartire.