24.02.2014

Le utilities resistono alla crisi

  • Il Sole 24 Ore

I «big» dei servizi pubblici sono un fortino anti-crisi, aumentano il fatturato anche negli anni bui e provano a essere anti-cicliche anche nel campo di investimenti e occupazione.
Suona così la sintesi dei risultati della nuova indagine sulle 100 imprese più grandi attive in energia, acqua, gas e rifiuti preparata dal centro di ricerca Althesys per le aziende di settore (e diretta da Alessandro Marangoni, economista della Bocconi) in occasione del Top Utility Award: si tratta del premio alle “migliori” imprese italiane di servizi pubblici, che giunge domani a Roma alla seconda edizione, organizzato da Federutility sotto il patrocinio di Commissione Europea, ministero dello Sviluppo economico ed Enea.
Sotto esame sono finiti prima di tutto i bilanci delle 100 aziende, che nel 2012 hanno superato i 130 miliardi di euro di fatturato aggregato, superando del 13,9% il dato del 2011. Cedono il passo gli investimenti, che si attestano a 4,2 miliardi contro i 4,5 dell’anno prima (-6,3%), ma anche questo dato disegna comunque un quadro migliore rispetto al comparto generale dell’industria, che ha contratto gli investimenti del 10% nello stesso periodo, mentre gli occupati passano da 134mila a 130mila. Migliorano ancora di qualche decimale i margini (l’Ebitda supera il 16% dei ricavi), tengono gli indici di redditività e anche la liquidità, croce degli operatori economici stretti fra crisi del credito e pagamenti bloccati, si conferma ai livelli dello scorso anno.
Il fatto di operare in genere in settori regolati, e caratterizzati da dinamiche meno agitate di quelle del mercato aperto e caratterizzate da una maggiore visibilità sugli investimenti, aiuta queste imprese a tenere la rotta anche nel quinto anno di crisi economica. Come contrappasso, però, le utility soffrono di una confusione endemica nel quadro normativo e nelle regole tariffarie, che per esempio ha penalizzato gli investimenti nel settore idrico dove i buchi della rete (dispersione al 34% a livello nazionale, al 32% fra le imprese maggiori) rendono cruciale l’impegno sulle infrastrutture. In un settore a così bassa intensità di lavoro, gli investimenti rimangono alti (24,64% del fatturato), ma scendono di un punto e mezzo rispetto all’anno prima proprio mentre ci sarebbe bisogno di uno sforzo aggiuntivo. In pratica, i rischi che spesso si evitano sul fronte della concorrenza sono compensati dalle contorsioni della normativa, che in più di un’occasione hanno messo a rischio la gestione dei conti soprattutto nei settori ambientali, dall’idrico impantanato nell’eterna incertezza post-referendum ai rifiuti perennemente alle prese con le incoerenze della Tares prima e della Tari oggi.
Caratteristiche settoriali a parte, i numeri e i grafici elaborati dai ricercatori confermano e rafforzano i vantaggi offerti dall’aggregazione, un concetto che la zoppicante normativa italiana fatica a promuovere. Prima di tutto, in media le grandi aziende vanno meglio delle piccole, non solo all’interno delle top 100 (dove comunque si incontrano realtà medie con performance di tutto rispetto) ma soprattutto nel confronto con la realtà delle micro-aziende diffuse negli enti locali e fotografate dalle indagini di Corte dei conti e ministero dell’Economia. Al l’interno del gruppo dei “grandi”, poi, le multiutility sono accompagnate da valori più brillanti sia nel margine operativo lordo (15,3% dei ricavi, circa tre punti sopra il livello raggiunto dalle aziende attive solo nell’energia o nei rifiuti) sia in termini di indebitamento (gli impieghi delle imprese multi-settore sono al 4% del capitale proprio, mentre nelle aziende di rifiuti superano il 6% e in quelle dell’idrico sfiorano il 9%). Operando in più rami di attività, sottolineano i ricercatori, le multi-utility «diversificano» i rischi di settore (un po’ come gli investitori in Borsa che puntano su più titoli e prodotti), sono in grado di creare maggiori economie di scala perché raggiungono dimensioni superiori e incontrano costi minori nell’accesso al credito. Peccato che le normative pro-aggregazioni siano cadute una dopo l’altra, e che con l’ultima legge di stabilità si sia deciso di ripartire da capo.
Nelle pagelle finali sulla cui base saranno distribuiti i premi alle aziende “migliori”, gli indicatori sulle performance economico-finanziarie e quelle operative si incroceranno con i parametri sulla sostenibilità, la comunicazione e i rapporti con clienti e territorio, in un panel di 151 valori che sfociano nella «valutazione integrata delle performance».