ROMA La «numero 1» fu sullo sciopero politico. Due operai tessili di Prato, Enzo Catania e Sergio Masi, si prestarono a distribuire volantini a pioggia pur sapendo che sarebbero stati arrestati, e Antonino Caponnetto, pretore alle prime armi, scrisse l’istanza di remissione alla Corte costituzionale della legge fascista che proibiva la protesta per motivi politici. A difendere i due Vezio Crisafulli, Giuliano Vassalli e Massimo Severo Giannini. Il 23 aprile del 1956 la Corte sancì l’illegittimità di quel divieto.
Da allora la Consulta ha accompagnato la vita degli italiani. E ieri, in linea con la «maggiore attenzione rivolta all’esterno» voluta dal presidente Paolo Grossi, ha festeggiato i suoi 60 anni di sentenze in un confronto con la presidente Rai, Monica Maggioni, i direttori Luciano Fontana ( Corriere ), Mario Calabresi ( Repubblica ) e Alessandro Barbano ( Mattino ). Concluso da un excursus appassionante del costituzionalista Maurizio Fioravanti, sulle pronunce che più hanno segnato il nostro tempo. A costo di correggersi, come fu per l’adulterio. Nel 1961 la corte ritenne legittima la differenziazione tra uomo e donna (punita con la reclusione). Nel 1969 richiamò il principio di eguaglianza.
Una presenza, quella della Consulta, che ha contribuito alla crescita della nostra democrazia senza valicarne i limiti. «Ogni volta che una questione arriva alla nostra attenzione, ci chiediamo dove possiamo arrivare noi e dove possa arrivare il Parlamento», ha evidenziato il giudice Giuliano Amato. Un limite ben chiaro nei rapporti con la politica: «Noi possiamo scegliere se la soluzione è a rime obbligate. Se invece ci possono essere più soluzioni, allora deve trovarla il Parlamento».
Non serve maggiore trasparenza? Magari — hanno chiesto i direttori — anche sulle opinioni dissenzienti? «In passato ero a favore — ha concluso Amato —. Poi mi sono reso conto che la dissenting opinion può indurre un giudice a fare la “prima donna”».
Virginia Piccolillo