05.07.2013

L’avvocato del comune diventa dirigente

  • Italia Oggi

Il reinquadramento automatico di un avvocato (dipendente di ente locale) a dirigente non determina la maturazione di responsabilità amministrativa in quanto vi sono numerosi dubbi sulla illegittimità di tale scelta. Possono essere così sintetizzati gli elementi essenziali contenuti nella sentenza n. 366 dello 11 giugno con cui la prima sezione di appello della Corte dei conti ha assolto gli amministratori di un comune. La sentenza ribalta la condanna che in primo grado era stata irrogata dai giudici contabili della Campania. Le indicazioni della pronuncia risultano convincenti sulla mancanza di colpa grave, anche alla luce del carattere non consolidato della giurisprudenza, mentre non sono attente alle ragioni per cui i reinquadramenti cozzano con i principi di carattere generale che presiedono alla organizzazione dell’ente locale e possono stimolare il contenzioso perché tutti gli avvocati dipendenti degli enti locali si sentono legittimati nella richiesta di diventare dirigenti, anche in comuni in cui non esiste la dirigenza.

Il caso concreto nasce dalla accettazione da parte di un comune della conciliazione intervenuta con un proprio dipendente procuratore legale che, a seguito del superamento della distinzione tra questa figura e quella di avvocato, aveva chiesto il reinquadramento come dirigente.

Il punto di base della sentenza è che vi sono numerose pronunce tanto del giudice civile del lavoro (Trib. Napoli, sent. 4 marzo 2003, n. 1392) che del giudice amministrativo (Consiglio di stato, 2 febbraio 2009, n. 561) che affermano il diritto degli avvocati di ente pubblico, di qualifica direttiva, ad essere inquadrati nella dirigenza, proprio (e solamente) in virtù dell’entrata in vigore della legge n. 27/1997, che aveva unificato le figure professionali di avvocato e di procuratore legale. Sulla base di questa constatazione viene ricostruito il possibile percorso logico da porre a base della decisione: «non è del tutto irragionevole che il sindaco e gli assessori competenti del comune abbiano ritenuto opportuno aderire al tentativo di conciliazione al fine di evitare gli ulteriori aggravi economici di una soccombenza in giudizio, ritenuta probabile (a ragione o a torto, ma non infondatamente), per di più in presenza di una norma di legge che consente anche alle pubbliche amministrazioni la transazione giudiziale, anzi incentiva tale strumento». Ricordiamo che in materia di conciliazione la normativa in vigore alla data in cui l’ente ha effettuato tale scelta escludeva il maturare di responsabilità amministrativa in caso di conciliazione. La normativa attualmente in vigore, contenuta nell’art. 31 della legge 4 novembre 2010, n. 183, stabilisce che la conciliazione «non può dar luogo a responsabilità, salvi i casi di dolo e colpa grave».

Si deve aggiungere che comunque la soluzione della conciliazione giudiziale non è strumento idoneo a superare una prescrizione di legge. Ed infatti, nel caso non è sostenibile che il limite delle norme imperative sia stato superato.

La sentenza prosegue affermando che «la sentenza della Cassazione civile, sezione lavoro n. 5869 del 17.03.2005, chiarisce che in realtà la Suprema corte enuncia il principio che la riforma introdotta nella legge n. 27 del 1997 non imponeva, né impone, all’amministrazione comunale di avere un unico ruolo di avvocati municipali, tutti inquadrati come dirigenti: ebbene, il non imporre indica una situazione nettamente differenziata e non riconducibile al vietare, presupponendo più opzioni, parimenti legittime, di natura latamente discrezionale afferenti l’esercizio di potestà organizzatoria, in ordine alla determinazione delle più efficienti ed adeguate modalità di organizzazione degli uffici legali». Ed ancora «non vi è un indirizzo univoco, vincolante in un senso anziché nell’altro le scelte organizzative dell’ente locale, bensì un’ampia sfera di autonoma e discrezionale valutazione». Nella stessa direzione va la decisione n. 6336/2009 del Consiglio di stato, sezione V; essa, infatti, si limita a rilevare che l’art. 3 del rdl n. 1578 del 1933 non impone al datore di lavoro pubblico di adottare una organizzazione degli uffici tale da individuare nell’ufficio legale una struttura necessariamente apicale, del tutto autonoma. La lettura proposta nella sentenza della prima sezione di appello della magistratura contabile appare francamente assai poco convincente, anche alla luce dei principi più volte affermati dalla giurisprudenza della stessa Corte dei conti in materia di scelte organizzative, con particolare riferimento alla considerazione che i costi aggiuntivi determinati dalle scelte autonome devono essere adeguatamente motivati e spiegati in termini di interesse generale.